John Dos Passos Il grande paese
di Simona
“Surplus non ce n’era più, in nessun campo: e invece lavoro, lavoro per ogni uomo e per parecchie donne. Alti salari. Compensi per gli straordinari. Gratifiche. Superati tutti i record produttivi. Nei cantieri si facevano scommesse, sì, scommesse su quale delle squadre costruiva una Victory in meno tempo (…) Produrre, ecco una cosa che gli americani sanno come si fa a fare.”
Pur riuscendo a rendere con chiarezza e rigore critico il senso del tempo, Dos Passos crea storie piuttosto lievi e piacevoli. Egli è “scrittore sociale” perciò è importante conoscere il contesto di cui scrive. In particolare, in questo caso, dopo la spettacolare vittoria nella Prima Guerra Mondiale gli Stati Uniti prendono coscienza del loro ruolo nel mondo, e il vecchio complesso di inferiorità (se non altro culturale) nei confronti dell’Europa scompare, mentre si sparge come una febbre la fiducia nel modello americano.
“Ci mettemmo a leggere i giornali, ad ascoltare la radio (...) Scorrevamo, stipati su treni di pendolari, le fitte colonne di stampa (…) Eravamo deboli in geografia (…) Anche in storia eravamo deboli (…) Non sapevamo che farcene della storia. La storia era finita. La storia era qualcosa da cui i nostri padri erano fuggiti. Noi americani vestivamo diverso adesso e tenevamo rivolte le facce ad ovest.”
Tutti possono aspirare al massimo, basta volerlo... fino a quando il sogno crolla di schianto, nel 1929. Si impone una svolta e inizia l’epoca del New Deal, lanciato dal presidente F.D. Roosevelt, che riuscirà a risanare in parte il sistema. La spinta morale e materiale del New Deal resisterà ancora per più di un decennio, fino alla Seconda Guerra Mondiale, ma già dopo il primo anno si dissolverà l’atmosfera di compartecipazione che aveva segnato i primi cento giorni della gestione Roosevelt. Dos Passos, nel 1949, riesce ad avere la lucidità necessaria per recepire le inquietudini e le incertezze latenti, scoprendo una realtà molto più dura di quella che la stampa voleva far credere. I due personaggi principali de Il Grande Paese sono quelli a cui naturalmente prestiamo la nostra simpatia perché sono idealisti sinceri: Millard Carroll, brillante astro in ascesa della politica USA e il suo collaboratore Paul Graves, più combattuto e scontroso, ma affascinante e anch’esso sincero. Intorno a loro agisce tutta una serie di altri personaggi (politicanti più o meno puliti, commentatori radiofonici, rudi contadini del Sud, giovani di buona famiglia plagiati) che scopriamo animata non tanto dal desiderio di realizzare il bene comune quanto, più prosaicamente, dalla voglia di lottare per ritagliarsi lo spazio cui ciascuno aspira. C’è la lotta per una poltrona di prestigio, la lotta dei comunisti contro lo stato borghese, la lotta dei sentimenti e, da ultimo, la guerra, quella vera, in Europa. Ma anche se molte di queste battaglie vengono combattute nei salotti, il prezzo da pagare è comunque alto. Per esempio Georgia, brillante e sfortunata, cederà alla disperazione; Walker Watson subirà l’ennesima sconfitta nella scalata al potere, esautorato da nuovi cinici parvenu, mentre Paul e Millard sceglieranno la ritirata: non c’è più spazio per i veri idealisti, e nelle ultime pagine si diffonde il senso del fallimento di questo grande sogno non solo di libertà, ma anche di giustizia.
“…e così questo immenso sforzo per bloccare l’avanzata della tirannia e della barbarie verrà condotto in modo da lasciarci, quando la guerra sarà finita, un mondo migliore. (…) E sappiamo molto bene che nel dopoguerra non potremo conservare lo standard di vita americano se non arriviamo a stabilirne uno simile anche fuori d’America. Dobbiamo quindi prepararci a questo enorme sforzo bellico…bellico ho detto…inutile illuderci. (…) Abbiamo fatto in modo che la gente dei piccoli ceti qui in questo paese avesse abbastanza latte per i propri bambini (…) Ora lo standard di vita negli States è arrivato a essere quello equo ma non potrà essere salvaguardato se ogni gaucho d’Argentina, ogni negro d’Africa uscendo fuori la mattina dalla sua capanna non troverà sulla soglia una bottiglia di latte (…) Il mondo del dopoguerra dovrà essere un mondo migliore, un mondo in cui la gente dei piccoli ceti abbia il diritto di unirsi per migliorare le proprie condizioni di vita, d’essere libera dal terrore della disoccupazione e della miseria che colpisce i vecchi.”
E, dopo tutto questo, mai gli anni trenta ci sono sembrati così vicini.