George Grella Jr.

George Grella Jr. Bitches Brew


Minumum Fax, 2019 Saggi | Musica | Jazz

22/06/2019 di Corrado Ori Tanzi
Nel 1970 Miles Davis rivoluzionò il jazz. Oddio, lo aveva già fatto almeno due o tre altre volte, ma il colpo d’inizio millennio fu di quelli che generarono un disorientamento tale nel mondo musicale contemporaneo da poter affermare, e senza enfasi, che il dopo non sarebbe più stato come il prima. Che cosa era successo? Nei negozi uscì un album intitolato Bitches Brew, un disco doppio dalla suadente e misteriosa copertina che tanto si avvicinava ai dipinti onirici di Salvador Dalì.

Il vinile che spostò il limite di capacità uditiva dell’ascoltatore quanto allargò le capacità percettive dei musicisti fu anche un’ossessione per George Grella jr., compositore anch’egli, musicologo e critico musicale che, in un magnifico volume edito da noi da Minimum Fax, intitolato appunto Bitches Brew (sottotitolo: Il capolavoro di Miles Davis che ha rivoluzionato il jazz), ci regala un nuovo e arricchito ascolto di quei suoni incandescenti e radiosi attraverso il racconto delle sessioni di registrazione un anno prima dell’uscita e di ciascuno dei sette pezzi che compongono l’album.

Coadiuvato da tredici musicisti che non hanno bisogno di presentazione, tra cui Wayne Shorter (sassofono), Joe Zawinul (piano), Chick Corea (piano), John McLaughlin (chitarra), Jack DeJohnette (batteria), Dave Holland (basso), Miles Davis mise la sua iconoclastia per creare nel modo più impossibile l’architettura del jazz moderno post-avanguardia. Grella scrive come l’apostata dell’Illinois organizzò quattro disorientanti sedute di registrazione al Columbia Studio B di New York in cui presentò alla squadra abbozzi di idee, grezze sequenze di accordi, qualcosa che assomigliava a una linea melodica e frammenti di armonie. Poi chiese loro qualcosa che funzionasse nell’ensamble del gruppo composto spingendoli a pescare il meglio del loro talento di improvvisatori che li mettesse a dialogare gli uni con gli altri, tromba di Davis compresa.

I musicisti ci diedero dentro e chiusero le session con la consapevolezza di essersi limitati a provare un suono. Non certo di aver registrato dei pezzi. Zawinul, tanto per dirne una, uscì confidando a Davis che non gli era piaciuto niente di quello che aveva fatto e ascoltato. «Abbiamo giocherellato troppo, sai», disse.

A loro insaputa invece la magia era già pronta, bastava tagliare e ricucire, tagliare e incollare da qualche altra parte. Davis aveva registrato tutto e incominciò il sottile lavorio di mettere insieme e sovrapporre più take per arrivare all’opera finale, il più alto esempio di manipolazione sonora che si potesse tentare.

Come scrive l’autore, il disco è proprio questo, un album nel vero senso della parola e cioè un foglio (il disco di vinile vergine) su cui vengono attaccati e incastrati dei pezzi (i suoni in totale libertà scelti) non prodotti nella forma in cui sono stati consegnati alla Storia.

Vale la pena di ascoltare ancora Zawinul: «Molto tempo dopo andai alla CBS, e l’impiegata stava ascoltando una musica incredibile nel suo ufficio. Che diavolo è?”, le chiesi, e lei: “Come sarebbe a dire, che diavolo è? Siete tu, Miles, John e gli altri su Bitches Brew”.» Rimase folgorato. Neanche un prodigioso musicista come lui aveva lontanamente sospettato che quei solchi fossero qualcosa che riguardasse le quattro sedute insieme.

Come dice Grella, per Miles Davis un disco era come la tela di un pittore. Che non esce dal nulla attraverso un percorso che va da A a B e da B fino a Z, ma vive di sovrapposizioni, cancellazioni, rimescolamenti, smontaggi e rimontaggi. Manipolazioni, appunto. La musica si crea una volta registrata, non una volta uscita dallo strumento. Tanto poi dal vivo il disco sarebbe stato suonato ancora diversamente, cosa naturale nell’universo jazz dove tutto e diverso da tutto, perfino da se stesso.

La bravura di George Grella jr. è quella di sentire sulla nostra pelle la musica di Bitches Brew anche in assenza (al momento e/o nella nostra memoria) del disco. La sua capacità di dar fuoco al funk, di parlare col rock, di rimodellare la fusion alzando un muro di calore incandescente, crogiolo di suoni bollenti, privi di forma ma allo stesso tempo corpo potente che percuote l’ascoltatore anche se la sua estetica finale richiede più ascolti prima che l’orecchio riesca addirittura a distinguere le tracce.

Un sound cristallino creato con l’artificio della strumentazione utilizzabile in fase di post-produzione che ebbe il risultato di liberare un plotone di musicisti e compositori jazz e di musica nera, nonché autori celebri come Carlos Santana, i Talking Heads fino a Thom Yorke. Se volete un esempio di strappo del Tempo e impostazione di un nuovo ordine mondiale nell’arte, disco e libro sono fatti apposta per voi.

 

George Grella Jr., Bitches Brew, Minimum Fax, 138 pagg., 13 euro

Corrado Ori Tanzihttps://8thofmay.wordpress.com