Erri De Luca

Erri De Luca Il peso della farfalla


Feltrinelli, 2009 Narrativa | Racconto

di Roberto Curatolo
Il confronto di due solitudini Erri De Luca è un maestro della distanza breve. Il suo “Il peso della farfalla” non supera le 60 pagine. Il primo racconto, quello che dà il titolo al libro, è lungo 52 pagine, il secondo, brevissimo, quasi un’appendice al primo, è di sole 8 pagine. Sembrerebbe, a tutta prima, un libro che puoi leggere in un paio d’ore, forse meno. Caratteri grandi, non più di trenta righe per pagina. E invece è un testo che richiede qualche giorno di lettura; e qualcuno di rilettura. Per la sua densità. Per la sua densità di significato concentrata in poche parole. Erri De Luca si conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, un maestro della parola. Della ricerca attenta, accurata, della parola. Un maestro del togliere, del levare, dell’asciugare. Del rendere la scrittura essenziale e del restituire ad ogni aggettivo la sua funzione di aggiungere significato. Siamo obbiettivamente stanchi di quei tomi da settecento pagine, tutte un logorroico sbrodolamento di parole, tutte un noioso affabulare di particolari inutili all’economia della storia. De Luca è asciutto nello scrivere come nel fisico. E’ ascetico nello scrivere come nel suo arrampicare in montagna. E’ essenziale nella sua prosa come lo sono i grandi nella poesia. Il peso della farfalla narra della vita parallela di due grandi solitari: il re dei camosci e il re dei bracconieri. Entrambi sono raccontati nel tramonto della loro esistenza. I loro muscoli sono ancora vigorosi, la loro conoscenza del territorio strepitosa e intatta, la loro esperienza sconfinata, il loro orgoglio inalterato e incorrotto, ma entrambi hanno il sentore dell’avvicinarsi del traguardo finale, della necessità di cedere dignitosamente il passo. “Sua madre era stata abbattuta dal cacciatore. Nelle sue narici di cucciolo si conficcò l’odore dell’uomo e della polvere da sparo.” Così inizia Il peso della farfalla e già in quelle prime parole si avverte che la tematica del testo sarà incentrata sullo scontro tra quel cucciolo che diverrà adulto, che vincerà il duello per diventare il maschio dominante del branco, che trasmetterà il suo corredo genetico a diverse generazioni di camosci, e quel cacciatore. “L’uomo era in là negli anni, gran parte della vita salita a cacciare di frodo le bestie in montagna. Si era ritirato a fare quel mestiere dopo la gioventù passata nella città tra i rivoluzionari, fino allo sbando.” Così viene presentato il bracconiere, di cui si intuisce, per alcuni cenni successivi, un passato cittadino turbolento e un successivo desiderio di pacificante solitudine nei silenzi della montagna. Difficile, in questo testo, non intravedere spunti autobiografici conoscendo il passato giovanile di De Luca e la sua grande amorosa passione per la montagna. E degli animali abitatori della montagna, De Luca dà segno di preferire di gran lunga i camosci, “le bestie più perfezionate alla corsa sopra i precipizi”. L’autore raggiunge vette di efficacia descrittiva quando definisce il salto dei precipizi da parte dei camosci come “un rammendo tra due bordi, un punto di sutura sopra il vuoto”. Il re dei camosci vive in solitudine, per scelta e per imprinting dopo la precoce perdita della madre che lo obbligò a crescere solo. Si avvicina al branco solo nella stagione in cui deve trasmettere alle femmine il suo corredo genetico. E’ possente, di taglia superiore a quella di ogni altro camoscio, è la preda più ambita, eppure la più inafferrabile. Spesso una farfalla bianca si posa sul suo corno sinistro e questa presenza risulterà decisiva nell’economia del racconto. Da circa vent’anni i due “re” si cercano o si evitano. Si confrontano a distanza, consapevoli che sarebbe arrivato il momento dell’incontro ravvicinato. Il duello infinito dei due solitari della montagna. Al futuro lettore non vogliamo togliere nemmeno un briciolo della suspense finale e non diremo dunque nulla dell’epilogo. Nel consigliare caldamente la lettura di quest’opera, sottolineiamo ancora una volta l’intensità poetica della scrittura di De Luca, ben esemplificata da questo passaggio: “A occhi larghi e respiro fumante fissava le costellazioni, in cui gli uomini stravedono figure di animali, l’aquila, l’orsa, lo scorpione, il toro. Lui ci vedeva i frantumi staccati dai fulmini e i fiocchi di neve sopra il pelo nero di sua madre, il giorno che era fuggito da lei, lontano dal suo corpo abbattuto. D’estate le stelle cadevano a briciole, ardevano in volo spegnendosi sui prati. Allora andava da quelle cadute vicino, a leccarle. Il re assaggiava il sale delle stelle.”


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