Duncan Hamilton George Best, l`immortale
66thand2nd Saggi | Biografie | Sport Calcio
08/12/2015 di Corrado Ori Tanzi
Il talento più cristallino del calcio inglese, il migliore dei tanti “figli di Matt Busby”, il vero padre del Manchester United, aveva collezionato con la maglia dei Red Devils 361 presenze, realizzato 137 goal, capocannoniere per cinque stagioni consecutive, conquistato due scudetti, una Coppa d’Inghilterra, due Charity Shield, una Coppa dei Campioni (in blu, contro il Benfica, con un goal che racconta più di mille parole), un Pallone d’Oro, nominato giocatore dell’anno dalla Football Writers’ Association (FWA). Poi aveva detto stop, per riprendere con una pletora di altre maglie, come Stockport County, Bournemouth, Cork Celtic, Fulham, Los Angeles Aztecs, Hibernian e altre, tutte tranne che indimenticabili.
Ma se c’è un calciatore la cui parabola non può essere sintetizzata dai numeri questo fu proprio Gorgeous George. E la lettura del volume di Duncan Hamilton, George Best, l’immortale s’impone per chiunque. Chiunque e punto. Il giornalista inglese, già sulla scena con un eccellente libro su Brian Clough, ripercorre la vita di questo benedetto dannato, per il pallone nato, dal calcio rovinato e infine ucciso dall’alcol.
In campo George l’irlandese fu il più artista tra tutti gli artisti del football. Più di Maradona, più di Pelè. Impossibile acciuffarlo, i due metri che prendeva all’avversario diventavano presto quindici, una sublime corsa col pallone al piede, una tavolozza di finte e controfinte che non aveva fine, creatore dal niente di spazi inesistenti in cui andare a smarcarsi o lanciare i compagni, traiettorie impossibili da fermo con cui fare dei portieri migliori i migliori merli. E poi un vuoto dentro che, anno dopo anno, lo tracimò in un abisso che ebbe fine, ma solo per la sua forma corporea, giusto dieci anni fa, il 25 novembre 2005, a 59 anni.
Hamilton si avvicina a questo cristallo ben conscio di dover scrivere un romanzo. Perché la vita di Best fu un romanzo che si scrisse giorno dopo giorno. I suoi primi anni a Belfast alla scoperta di quell’oggetto rotondo che rotolava; la chiamata dello United (doppia, perché la prima volta il ragazzino scappò dal collegio e tornò a casa); l’ambiente del calcio inglese negli anni Sessanta (“una faccenda piuttosto brutale. Poteva diventare una specie di lotta in gabbia, priva di regole”), con autentici macellai che di nome facevano Ron “Chopper” Harris, Tommy Smith, lo “sporco Leeds”, la squadra con la peggiore reputazione del pianeta insieme all’Estudiantes; le prime partite che riportarono gli spettatori nelle loro case ancora increduli per ciò a cui avevano assistito, la fama, gli eccessi nell’abbigliamento (“poteva cambiarsi anche tre volte al giorno e trovare sempre qualcosa di nuovo da indossare”); il denaro a fiumi che iniziava a ingrossare il suo conto corrente (nel 1965 “il suo stipendio era di 125 sterline a settimana. La media, in Inghilterra, era 1.300 sterline l’anno. Una casa nuova ne costava meno di 3.500”); la debolezza per le Jaguar E-type; le pubblicità per qualunque oggetto da vendere, il suo restare “accessibile in maniera ridicola” per chiunque lo volesse incontrare; il sarcasmo che gli pioveva dagli spalti per i suoi capelli lunghi e la passione della moda («Ragazzona che non sei altro. Dove hai messo la borsetta?» tanto che una volta se ne fece davvero imprestare una da una signorina e sbucò dal tunnel dell’Anfield portandola all’avambraccio).
E poi le donne e l’alcol, certo. Una malattia. Ossessione permanente. Mai violento con qualcuno. Tutta la distruzione era prevista per sé. La trombosi, l’arresto per guida in stato di ebbrezza e la prigione, la sua amara seconda chance ai Red Devils e l’inqualificabile umiliante addio a cui fu sottoposto. Queste le pagine più delicate del racconto di Hamilton. Che a ragione sottolinea come non fu la bottiglia. La bottiglia fu un semplice mezzo. Fu la stessa sua sensibilità di ragazzo della porta accanto e la sua arte a isolarlo e lentamente ucciderlo («Nessuno sa cosa si prova a essere me» disse una volta), il pensiero di non riuscire più a trascinare un match dove voleva lui lo fece sentire un giocatore come gli altri (non esageriamo, poco più degli altri, ma non poteva essere abbastanza), pur se per quelle prestazioni il 99% dei colleghi avrebbe pagato oro. Disse: «Non potevo accettare di essere semplicemente un giocatore molto bravo. Ero il miglior giocatore che il mondo avesse mai visto». Flaubert lo aveva scritto un secolo prima: «Vivi come un borghese, pensa come un semidio». Con le ore che se ne andavano senza che lui se ne accorgesse, sprofondò in un malessere di cui fu l’unico colpevole. E così prese a stappare una bottiglia.
Eppure fino alla fine, pur con le maglie più improbabili gli spettatori continuarono ad accorrere a decine e decine di migliaia pagando il biglietto solo per vedere lui. Fregava poco della partita. Volevano vedere giocare lui. Il giorno del benservito da parte del coach Tommy Docherty fu l’uomo più solo del mondo. Chissà se gli risuonarono per la testa le frasi dei più illustri colleghi del tempo. Come il capitano della nazionale inglese Bobby Moore che confessò di aver sempre giocato qualche metro più lontano da lui di chiunque altro perché con la palla al piede avrebbe potuto prendere dieci direzioni diverse o fare venti numeri diversi oppure quelle di Alan Mullery, che ammise di non sapere mai se la palla sarebbe andata a sinistra, sopra la sua testa o tra le sue gambe e così tirava a indovinare sbagliando nove volte su dieci.
Da qualche anno l’aeroporto di Belfast è a lui intitolato. Non ci poteva essere scelta più appropriata. L’uomo abbattuto dal peso del suo stesso cognome resta un eroe per la sua gente. Chissà che il tempo non incominci finalmente ad affiancare alla memoria del calciatore quella dell’uomo, che restò sempre tale nonostante appunto il cognome e il calciatore.
Duncan Hamilton, George Best, l’immortale, 66thand2nd, pagg. 496, 25 euro
Corrado Ori Tanzi
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