Bob Riesman I Feel So Good: The Life and Times of Big Bill Broonzy
The University of Chicago Press 2011 lingua inglese Biografie | Musica
05/07/2021 di Leandro Diana
Come? Non avete mai sentito parlare di Big Bill Broonzy? Eppure, sono sicuro che avete già sentito Derek And The Dominos cantare Key to the highway su Layla ed Eric Clapton suonare Hey hey nel famoso Unplugged del 1992… Solo un enorme equivoco potrebbe far sì che un gigante come Big Bill Broonzy possa essere considerato un artista “minore”. Vi pare possa essere considerato “minore” un artista che nel 1943, dopo 15 anni di onorata carriera, si sente così sicuro della propria posizione nel mercato blues di Chicago da accogliere in città, indirizzare e avviare la carriera di un giovane e promettente musicista appena arrivato dalla piantagione Stovall, nel profondo Delta del Mississippi, di nome McKinley Morganfield, che – anche grazie a quell’alto patrocinio – diverrà presto noto in tutto il mondo come Muddy Waters, padre universalmente riconosciuto del Blues alla maniera di Chicago? (Questo ci mette di fronte al vecchio paradosso del Blues di Chicago, che evidentemente esisteva ben prima che nascesse il “Chicago Blues”… ma questa è un’altra storia). Muddy Waters ringrazierà non solo portandone sulle spalle la bara al funerale, ma pubblicando un intero album di sue cover Muddy Waters sings Big Bill nel 1960. E la stessa cosa faranno 54 anni dopo, per riappacificarsi dopo anni di liti e distanza, i terribili fratelli Phil e Dave Alvin con Common Ground: Dave & Phil Alvin Play and Sing the Songs of Big Bill Broonzy («come tutti i fratelli sin da bambini abbiamo sempre litigato su quasi tutto, ma su una cosa siamo sempre andati assolutamente d’accordo: la grandezza delle canzoni di Big Bill Broonzy» dichiareranno i due nelle interviste per il lancio del disco, consigliatissimo).
A dirla tutta, Broonzy era già uno dei padrini della scena blues di Chicago quando nel 1938 John Hammond lo invitò ad esibirsi nel famigerato concerto From Spirituals to Swing alla Carnegie Hall di New York in sostituzione di Robert Johnson, morto pochi mesi prima. Dovendo sostituire un ruspante artista locale del profondo Delta, Hammond lo fece vestire da contadino, con tanto di salopette, nonostante Broonzy non fosse fino ad allora mai apparso in pubblico senza abito e cravatta, e la sua musica fino ad allora non avesse mai avuto nulla di ruspante o campagnolo.
Violinista di formazione (imparò a suonare la chitarra solo una volta giunto a Chicago nei primi anni ’20 del Novecento), originario dell’Arkansas e gran parolaio, Big Bill è uno dei più importanti e sottovalutati (e forse, da noi – diciamocelo – anche un po’ troppo sconosciuto) sacerdote della musica del diavolo. Dall’esordio ragtime su 78 giri con lo strumentale House rent stomp al folk revival europeo ante litteram del film Low light and blue smoke (1956), passando per il mordace hokum di Selling that stuff e la canzone di protesta di Black brown and white blues (get back), ha attraversato (e spesso preceduto) quasi ogni stile in centinaia e centinaia di registrazioni (la benemerita Document Records – nota per pubblicare le discografie complete di moltissimi artisti della prima metà del secolo scorso su più volumi e in rigoroso ordine cronologico di incisione – ha pubblicato almeno 13 volumi di sue registrazioni in studio, per un totale di oltre 220 canzoni), adattando ogni volta ai nuovi tempi songwriting, stile esecutivo, accompagnamento, il proprio personaggio e addirittura i racconti autobiografici con cui amava introdurre le proprie esecuzioni, specie davanti all’appassionato e raffinato pubblico europeo.
Big Bill aveva già scritto un’autobiografia, con la collaborazione dell’amico belga Yannick Bruynoghe nel 1955, ma le (volute) imprecisioni e qualche incoerenza di troppo con i documenti anagrafici disponibili hanno spinto Bob Riesman a fare qualche ricerca sul campo, sfociata nel suo esordio editoriale con questo libro pubblicato nel 2011.
Riesman raggiunge brillantemente almeno un duplice obiettivo: da un lato mette ordine nella biografia di Broonzy, a partire da data e luogo di nascita, nome e cognome esatti, e quindi – cosa non da poco dal punto di vista delle fonti – familiari ancora viventi; dall’altro, dando atto, passo passo, delle differenze tra la realtà storica e i racconti autobiografici di Big Bill, Riesman suggerisce una chiave di lettura di tali discrepanze tanto originale quanto suggestiva e verosimile. Secondo l’Autore, Big Bill avrebbe piegato la sua stessa biografia alle proprie esigenze artistiche, modificandone i dettagli e inventandone personaggi e aneddoti, mai per mera vanagloria bensì sempre in maniera strettamente funzionale al messaggio artistico e sociale della sua musica. Un esempio ne è la probabile invenzione del personaggio di zio Jerry Belcher, usata da Big Bill per personificare e raccontare, attraverso i relativi aneddoti, la vita e la cultura afroamericane prima dell’avvento del blues. Come quando zio Jerry finiva nei guai con la moglie per cantare quelle canzonacce (che chiamava “reels”, non “blues”) dalle parole sconce che osavano ricordare troppo da vicino le melodie dei canti da chiesa…
L’Autore dà anche ampio risalto alle varie manifestazioni, nella vita del Nostro, della sua intelligenza adattiva, tradottasi nella rara capacità di sfruttare a proprio vantaggio ogni opportunità di vestire panni sempre diversi che gli altri gli cucivano addosso (come fece John Hammond) o di incarnare l’idea di artista nero che di volta in volta un certo spirito dei tempi aveva bisogno di sentire e osannare. Mi riferisco alla parentesi hokum di fine anni ’20 ma, soprattutto, al suo periodo “folk” con cui a cavallo della metà del secolo scorso, si fece ambasciatore in Europa della cultura e dell’immenso canzoniere del folklore nero del mezzo secolo precedente. Effettivamente tutto era iniziato con l’”equivoco della salopette” causato da John Hammond. Il punto è che la giovane borghesia progressista bianca aveva bisogno di personaggi in cui visualizzare il proprio immaginario del “buon selvaggio” che si rilassa cantando blues davanti alla sua baracca di legno dopo una dura giornata di lavoro nei campi (immagine ovviamente romanzata, se non addirittura falsa del tutto). Così come aveva bisogno di apprendere e radicare gli esordi della canzone folk di protesta nei campus universitari in un più ampio e primordiale brodo di coltura costituito da canti da lavoro, ninne nanne, canti di prigione, girotondi d’infanzia etc. Riesman racconta molto bene come Big Bill avesse capito tutto questo al volo appena incontrate le persone giuste, e volse a proprio favore l’”equivoco della salopette” presentandosi al giovane pubblico bianco progressista come uno dei più grandi (se non “il più grande”, ça va sans dire) conoscitore delle origini più remote della musica nera… che ovviamente aveva ascoltato di persona dallo zio Jerry e dai suoi amici. Fu così che Big Bill sdoppiò la propria carriera e il proprio personaggio: da un lato l’elegante bluesman elettrico che aveva suonato con Georgia Tom e Memphis Minnie, e cantava canzonacce salaci nei locali del Southside di Chicago per un pubblico esclusivamente nero; dall’altro il cantante in camicia a quadri con chitarra rigorosamente acustica che animava gli “hootennanny” folk della comitiva di “I came for to sing” animata da Studs Terkel e Win Stracke nei campus universitari e nelle tv locali, per un pubblico rigorosamente bianco.
Non vado avanti per non sottrarvi oltre il piacere della lettura di un libro ben scritto e ben documentato, che riferisce in modo ampio e approfondito, con sguardo a un tempo critico e indulgente, arte e vita, gloria e debolezze di un grande musicista e autore cui ancora oggi non vengono riconosciuti i giusti meriti.