Barbara Steigler BISOGNA ADATTARSI: un nuovo imperativo politico
Carbonio Editore, 2023, Collana Zolle, Traduzione e introduzione di Beatrice Magni, Pagine 264, 19 euro Società | Saggi | Filosofia
26/09/2023 di Roberto Codini
“Con la scusa del virus il potere dà scacco all’istruzione e alla democrazia”.
In un'intervista del 2021 la filosofa Barbara Steigler, parlando del suo lavoro, “Il faut s’adapter. Sur un nouvel imperatif politique” (“Bisogna adattarsi. Intorno a un nuovo imperativo politico”), si esprimeva così a proposito della scuola: “La didattica a distanza ha distrutto l’insegnamento come atto collettivo. Perché si basa sulla finzione che l’educazione possa ridursi alla connessione tra due individui”. (La Steigler è anche autrice del saggio “La democrazia in pandemia”).
Nel suo saggio l’autrice critica l’adattamento e la resilienza, considerate le nuove manifestazioni di un nuovo imperativo politico di matrice neo-liberale, contrapponendo a essi la resistenza, intesa come capacità di non rassegnarsi all’adattamento.
La filosofa francese conduce la sua critica non solo sul piano filosofico e politico, ma partendo dalla scienza, in particolare dall’evoluzionismo di Darwin. I concetti chiave di Darwin, spiega la Steigler, sono alla guida di molti imperativi contemporanei: “adattarsi” per sopravvivere, seguire le “mutazioni”, prendere parte all’“evoluzione”. Per questo sono necessarie una resistenza e un nuovo adattamento.
L’autrice ci mostra come categorie importate dalla biologia, come “evoluzione” e “adattamento” siano riuscite a dominare gradualmente il campo politico contemporaneo, una vera e propria fusione tra politica e biologia.
«Il vocabolario biologico dell’adattamento ha gradualmente invaso tutti i campi. È sorprendente, perché dopo la Seconda guerra mondiale si è posto il principio che la politica e la biologia dovessero assolutamente essere separate. Questa miscela colpevole è stata chiamata “darwinismo sociale”, l’idea che i più deboli debbano perire. Il che, tra l’altro, tradisce le idee di Darwin stesso sulle società umane […] Anche se le nostre società sono sempre più diseguali, il discorso ufficiale dei nostri governanti non rivendica mai chiaramente un’eliminazione dei più deboli, ma sostiene invece le “pari opportunità” e la “benevolenza” verso i più vulnerabili. Nella visione neoliberista che prevale in Francia e in Italia c’è una contraddizione nel lessico tra questo discorso a favore della vulnerabilità e l’uso del vocabolario darwiniano della competizione. È questo enigma che ha motivato la mia indagine e mi ha portato a studiare le fonti americane del neoliberismo».
L’autrice ci spiega che il neoliberismo ha attinto a fonti evoluzioniste, mentre riscopriva la necessità dello Stato e delle sue politiche pubbliche. Negli anni ’30, infatti, i liberali più attenti decisero di abbandonare certe illusioni del liberismo classico, quelle che secondo loro avevano portato alla crisi del ’29: la prima di queste illusioni era la convinzione che la specie umana fosse perfettamente attrezzata per il mercato e che fosse sufficiente lasciar fare. La psicologia evoluzionista, al contrario, sosteneva che la specie umana fosse difettosa. La sua lunga storia evolutiva l’aveva adattata a comunità stabili e chiuse, e non poteva che essere mal adattata alle esigenze di un mondo globalizzato. “L’intera agenda del neoliberismo è nata da questa diagnosi. Da allora le politiche pubbliche dello Stato neoliberista si sono poste l’obiettivo di trasformare la specie umana attraverso l’educazione, la salute e il diritto, per riadattarla alla concorrenza globale. Imponendo la concorrenza a tutti gli individui, compresi i malati, i disabili, i bambini e i disoccupati, lo Stato
neoliberista ha cominciato a difendere le disuguaglianze, non più in nome della natura, come i darwinisti sociali, ma in nome di istituzioni pubbliche presentate come “benevole”, al servizio della giustizia e delle pari opportunità”.
Nel suo libro “La democrazia in pandemia” la Steigler parla di una “svolta ambulatoriale universale”: “un tempo i nosocomi erano strutture in cui si pazientava, si soggiornava e si rallentavano i ritmi, ora si è passati a una logica industriale in cui tutti i ritmi devono essere accelerati, i pazienti devono essere dimessi il più rapidamente possibile per aumentare il rendimento. Questo è il senso stesso della svolta ambulatoriale, che obbliga non solo il personale medico, ma il paziente stesso a diventare efficiente e competitivo, ovvero “attore e produttore di salute”. L’ospedale, il luogo che doveva essere ospitale per eccellenza è diventato radicalmente inospitale. Questa logica riguarda ora tutte le istituzioni della Repubblica. Quello che si sta imponendo ovunque è una svolta ambulatoriale universale, in cui gli “utenti”, che rischiano sempre di costituire degli stock in eccesso, sono, grazie alla tecnologia digitale, rimandati a casa e ridotti a flussi di connessione. Sotto la pressione dell’efficienza, tutte le istituzioni diventano inospitali e si convertono alla cultura della valutazione continua della performance».
E sulla scuola scrive: “I corsi online hanno distrutto l’insegnamento come atto collettivo, negando ciò che era al centro dell’educazione: contribuire alla socializzazione, non solo attraverso il contatto tra pari, ma soprattutto attraverso la costituzione di una società che condivide il sapere sviluppato in comune. La finzione che accompagna questi dispositivi è che l’educazione possa essere ridotta a una semplice connessione tra due individui, tra un parlante che invia un messaggio predefinito e un ricevente che riceve passivamente questi contenuti prima di ripeterli in modo identico. Questa è la negazione stessa dell’educazione. L’insegnante esce da lì semplicemente svuotato. Oggi fare una lezione equivale a ricevere un contenuto preconfezionato, che esclude qualsiasi confronto collettivo sulla conoscenza. Una lezione che può essere tenuta sia “in presenza” sia “a distanza”, una coppia di parole tossiche perché rende il vero corso, quello che si tiene collettivamente, una semplice opzione, potenzialmente troppo costosa o lussuosa. Non verrebbe mai in mente a nessuno di parlare di una cena “in presenza” o di una festa “a distanza”. Ma è diventato possibile per un corso.
Questa mutazione lessicale, che sta invadendo la mente di tutti, dimostra che la riflessione dei pedagogisti degli ultimi due secoli sull’atto educativo è stata spazzata via dal progetto neoliberista, quello di una riduzione dell’educazione alla capitalizzazione individuale di prestazioni e competenze in vista della sola competizione sociale. Al punto che la valutazione è diventata l’unica ossessione
delle lezioni via Zoom”.
In questo saggio la Steigler effettua una analisi filosofico-politica scrivendo che il pensiero politico dominante è quello che si è autodefinito, a partire da un famoso convegno tenutosi a Parigi nell’agosto del 1938 intorno all’opera di Walter Lippmann, con il nome di “neoliberalismo”. Tuttavia, se il neoliberalismo è diventato una posizione teorica dominante nell’ambito politico contemporaneo, la sua storia è stata paradossalmente poco indagata, e i suoi legami originari con la rivoluzione darwiniana sono stati del tutto dimenticati.
È stato necessario attendere, nel 2004, la pubblicazione dei corsi di Michel Foucault, le sue lezioni della fine degli anni Settanta al Collège de France, per iniziare finalmente a prendere sul serio ciò che vi era di realmente nuovo in questo neo-liberalismo. Fino a quella data recente il neoliberalismo è stato sistematicamente confuso ora con l’economia neoclassica, ora con il capitalismo deregolamentato della finanza, ora con l’ultraliberalismo a sostegno dello Stato minimo e della privatizzazione commerciale di tutti i servizi. Di fronte a tutte queste confusioni concettuali, Foucault ha il merito di aver stabilito che uno dei punti di rottura principali tra il liberalismo classico e il “nuovo liberalismo” passasse attraverso il ritorno invasivo dell’azione statale in tutti gli ambiti della
vita sociale. Foucault ritenne di poter concludere che il neoliberalismo era essenzialmente
una forma di anti-naturalismo.
L’autrice si pone allora una serie di domande: ogni forma di ritardo rappresenta in sé un fallimento? Bisogna auspicare che ogni ritmo si aggiusti, mettendosi al passo di una graduale riforma della specie umana, che proceda nel senso di una sua accelerazione costante? Non si dovrebbe invece rispettare le irriducibili differenze di ritmo che strutturano ogni storia evolutiva? La questione fondamentale è sapere se il nuovo liberalismo abbia ragione nel suo intento di rendere liquida ogni stasi in nome del flusso, oppure se la tensione tra flusso e stasi e, con essa, il moltiplicarsi delle situazioni di ritardo, di tensione e di conflitto non sia invece parte costitutiva della vita stessa. Si tratta in sostanza di capire come, nella seconda ipotesi, si possa ripensare lo spazio del politico come quell’ambito in cui si tratta di far fronte non soltanto al conflitto tra interessi, ma anche alla divergenza di ritmi evolutivi che struttura ogni entità vivente.
Quale che sia la risposta finale a questi interrogativi, il proposito è comprendere meglio come il neoliberalismo, sulla base di una precisa
e potente narrativa sul senso dell’evoluzione, abbia potuto dominare contemporaneamente il discorso della riforma e quello della rivoluzione, condannando i suoi avversari alla reazione, al mantenimento di vantaggi acquisiti, o alla nostalgica speranza di un ritorno (dello Stato sociale, della comunità, dell’autarchia), sempre tuttavia sotto il vincolo di recuperare un ritardo.
Non si tratta allora di riadattare la specie umana a quella che la Steigler chiama la “Grande Società”, ma di “governare la vita e gli esseri viventi”.
Come spiega l’autrice, il saggio è nato dal bisogno di comprendere da dove potesse derivare la comune sensazione, sempre più opprimente e sempre più condivisa, di un ritardo generalizzato. Si può infatti supporre che sia uno dei frutti tardivi dell’accelerazione generalizzata dei ritmi e dei flussi, già evidente nelle sensibilità del XVIII secolo, e che Marx imputerà, nel XIX secolo, allo sviluppo del capitalismo. Ed è vero che l’attuale percezione di essere in ritardo rispetto alle esigenze del futuro emerge già, senza dubbio, da queste nuove modalità di vivere, sentire e pensare generate dallo sviluppo del capitalismo e dall’atmosfera di rivoluzione permanente da quest’ultimo imposta a tutti i ritmi sociali, dall’inizio dei tempi moderni fino alla rivoluzione industriale. Come noi, gli individui degli ultimi due secoli erano già sempre sotto pressione. Come noi, subivano già le gioie e i dolori della vita in costante progressione, del ritardo e della fretta. Anch’essi si figuravano di fare il giro del mondo in pochi giorni, e speravano di partecipare con determinazione, come “quei viaggiatori che conoscono Paesi e persone senza lasciare il loro vagone di treno”, a ciò che Nietzsche chiamava la “mostruosa accelerazione della vita” .
Come si può spiegare, si chiede l’autrice, questa costante lamentela del “ritardo” e questa continua richiesta di “adattamento” in vista della “competizione”? Chi ritarda cosa? Dovremmo o non dovremmo ritardare? Ogni ritardo è sempre segno di un difetto del materiale umano? È comunque vero che, ai giorni nostri, il conflitto politico si concentra principalmente sulla questione di chi è in ritardo e chi è in anticipo: questa riconfigurazione delle tradizionali polarizzazioni può spiegare perché, nelle pubbliche arene attuali, tutti i simboli politici sembrano costantemente scambiarsi e invertirsi, con una rapidità che disorienta anche le menti politicamente più preparate. I vecchi conservatori si trasformano in progressisti, mentre i vecchi progressisti vengono denunciati come conservatori. Per gli ex “progressisti”, il pericolo è rimanere intrappolati nella difesa del rallentamento, della stabilità e di tutte le stasi in generale, contro l’imperativo ad
avanzare, evolvere e adattarsi. Si dovrebbe allora riconoscere che la maggior parte dei nostri contemporanei, eliminando l’aspetto biologico dal campo della politica, quando lo si dovrebbe invece ripensare come “biopolitico”, non ha previsto nulla di tutto ciò, né di
questi nuovi conflitti.
Si tratta, secondo la Steigler (e questa è la sua proposta filosofica, ma anche politica) di “ricostruire una nuova concezione filosofica e politica del significato della vita e dell’evoluzione, che vada oltre lo sterile confronto tra costruttivismo e biologismo, in modo che la filosofia possa svolgere pienamente il suo ruolo nell’arena dei futuri conflitti politici, illuminando la storia e il significato delle politiche dell’evoluzione, e contribuendo a una riacquisizione collettiva, democratica e illuminata del governo della vita e degli esseri
viventi”.
Il bel saggio di Barbara Steigler dimostra anche l’attualità, la necessità e l’utilità di quella che è stata troppo spesso relegata tra le materie astratte, incomprensibili, inutili. Oggi più che mai c’è bisogno di Filosofia.
Barbara Stiegler (1971) insegna filosofia politica all’Università di Bordeaux Montaigne ed è membro dell’Institut Universitaire de France. Ha vinto il Grand Prix Moron della Fondazione Renaudin nel 2019. Tra le sue opere ricordiamo Nietzsche e la biologia (Negretto Editore, 2010), Nietzsche et la critique de la chair (2005) e Santé publique année zéro (2022). Di Stiegler Carbonio ha pubblicato anche La democrazia in Pandemia (2021).