Åsne Seierstad Il libraio di kabul
2003, Sonzogno Editore, 321 pp., € 17,00 Narrativa Straniera
di Francesca Manco
A farci entrare nella realtà afgana, nei suoi colori e nei suoi dolori, è proprio il libraio, ma non è un romanzo, né tanto meno una fiaba, a raccontare la sua storia. Lo fa, invece, il resoconto dettagliato, intenso e appassionante di Åsne Seierstadt, giornalista norvegese e corrispondente di guerra giunta in Afghanistan nel novembre 2001.
Dopo la caduta del regime talebano, Åsne capita per caso in una libreria ed è l’incontro con Sultan Khan, il proprietario, a stimolare in lei il desiderio di entrare nelle profondità della cultura afgana.
Nessuno scenario bellico, infatti, può rendere lo spirito di un popolo con la stessa intensità che è data da un contatto umano, diretto ed affettivo, con la gente comune, e Åsne ne è consapevole.
Per questo avanza al libraio una proposta azzardata: chiede di poter vivere a casa sua, completamente immersa nella quotidiana vita domestica dei Khan, con lo scopo di scrivere un libro sulla famiglia ospitante.
La risposta del libraio è sorprendentemente semplice: dapprima ringrazia, per poi ripetere per due volte «benvenuta». Benvenuta Åsne lo è davvero: in casa vige l’ordine di non farle mancare nulla e tutti sono colmi di riguardi nei suoi confronti. La permanenza in casa Khan tuttavia non è un idillio, perché non lo è, né può esserlo, il contatto di una donna occidentale con una società che, alle donne, non riconosce molti diritti.
Il regime talebano, infatti, sebbene crollato, «non è scomparso dalle menti delle donne», né, tanto meno, da quelle degli uomini.
Suscita scalpore, per non dire sdegno, che una donna senta il bisogno di lavorare o di ricevere un’istruzione, e questo non è che la prima delle ingiustizie mostrate dall’autrice.
Ciò che maggiormente colpisce è indubbiamente la concezione comune afgana di temi come sessualità, erotismo, matrimonio ed amore.
L’amore, semplicemente, non è concesso, nemmeno contemplato: se provato, deve essere nascosto. Perché è la famiglia a decidere chi la figlia debba sposare, sulla base di criteri tesi a valutare la convenienza dell’ “affare”. Se poi la futura sposa, alla notizia di chi è il prescelto a cui dovrà unirsi, piange, questo è un buon segno, perché significa che «la sposa ha il cuore puro». Non importa se infranto. Le donne ritratte da Åsne Seierstad sono tutte abituate, e rassegnate, a nascondere questo come molti altri dolori, nello stesso modo un cui sono capaci di nascondere il proprio volto dietro ad un burka.
La società in cui vivono, d’altronde, è un contesto culturale dove «il termine per sposa e bambola è lo stesso: arus». E una bambola non può che dipendere da chi la possiede.
Significativa, in questo tragico scenario, è la frase d’apertura del libro: l’autrice riporta qui un le parole di un graffito visto su un muro, a Kabul: -Migozarad!-, cioè «Passerà!».
Se sia vero non è lecito sapere, ma sicuramente ce lo auguriamo.