Alessandro Toso

Alessandro Toso Jugobasket - Tre generazioni leggendarie


Bottega Errante Edizioni, Collana Camera con vista, Postfazione di Dino Meneghin, 2024, 280 pagine, 20 euro Biografie | 0 | Sport

15/11/2024 di Pietro Cozzi

Chiunque sia almeno sulla cinquantina e abbia sudato su un campo da basket, anche semplicemente quello dell'oratorio, sa che nelle giornate particolarmente fortunate al tiro capitava di essere celebrato dai compagni come un piccolo “Drazen”. Una bella prestazione accendeva il riferimento immediato agli eroi della pallacanestro jugoslava, che nei cuori degli appassionati era senza dubbio la più bella d'Europa e forse del mondo. A quella inimitabile fucina di campioni Alessandro Toso, giornalista, addetto all'export di una multinazionale edile, ma soprattutto folle appassionato della palla a spicchi, dedica Jugobasket - Tre generazioni leggendarie, passando in rassegna le carriere agonistiche e post-agonistiche di alcuni protagonisti del basket d'Oltreadriatico dalla fine degli anni Sessanta alle soglie del terzo millennio. Undici campioni, da Bogdan Boša Tanjevic a Predrag Saša Danilovic, si raccontano in altrettanti colloqui, realizzati per l'occasione nella loro terra d'origine; l'autore sceglie però di non utilizzare la forma -intervista, con il classico botta e risposta, e preferisce farli parlare in prima persona, sacrificando forse un po' di oggettività a favore di una più suggestiva confessione diretta.

Fatte queste premesse, Jugobasket potrebbe sembrare il classico lavoro da raccomandare ai soli cultori di tabelloni e parquet, un'avvincente ricostruzione di un'età dell'oro della pallacanestro, ricchissima di retroscena e di aneddoti, ma riservata a chi con questa vicenda sportiva ha già una certa confidenza. Il libro però dice molto di più. In queste pagine c'è anche uno sguardo da vicino sulla storia dell'altroieri e di ieri di un'ex nazione che è un po' uscita dai nostri radar dopo la fine del socialismo e delle terribili guerre degli anni '90. Se si eccettua la cronaca di qualche occasionale e pericoloso ritorno di fiamma nei rapporti tra la Serbia e la Bosnia Erzegovina, con le conseguenti ambigue intromissioni russe, dei nostri un po' esotici vicinissimi di casa abbiamo perso le tracce. Di quel che capita a Belgrado, Zagabria o Lubiana poco o nulla sappiamo dalle televisioni e dai quotidiani nazionali, ma si direbbe che anche la nostra politica estera sia abbastanza distratta nei confronti di una terra che dovrebbe far parte della nostra sfera d'influenza, come si diceva un tempo.

Le biografie di questi ex campioni sono anche l'occasione per riannodare il filo con la storia perduta di un esperimento di socialismo sui generis, che imponeva agli jugoslavi la rinuncia alle libertà dei sistemi liberaldemocratici in cambio della garanzia di condizioni economiche e sociali almeno dignitose. Dentro questo sistema chiuso, anche alcuni fuoriclasse assoluti del basket europeo, plurivincitori di campionati nazionali, Coppe dei Campioni ed Euroleghe, venivano retribuiti solo con rimborsi spese, un appartamento e un'auto, concessi benevolmente dal regime e qualche premio partita. Piccoli privilegi, vissuti persino con qualche senso di colpa.

“Ci sono lavoratori a Prijepolje che lavorano da trent'anni e non hanno ancora un appartamento, e voi ne chiedete uno solo perché lui gioca a pallacanestro? Vergognatevi!”, sbotta il padre del grande Vlade Divac, poi strapagato professionista negli USA con i Los Angeles Lakers, di fronte alle pretese sue e del fratello nel corso delle trattative per il contratto con il Partizan Belgrado. Prima della scoperta dell'NBA, per le “generazioni leggendarie” del basket jugoslavo l'America cominciava dopo il confine di Trieste, quando, all'età di 27-28 anni, il regime consentiva ai giocatori, già un po' cotti, di sbarcare nel nostro campionato e di arricchire finalmente il loro conto in banca.

Eppure per questi undici cestisti d'eccellenza il denaro, anche quando arriva, sembra contare davvero pochissimo, o comunque molto meno del gioco, della tecnica, della passione, del lavoro duro. E qui sta l'altro motivo di interesse extra-cestistico del libro. Questi fuoriclasse assoluti del loro sport sembrano lontani anni luce dagli intoccabili “campioni” attuali, infagottati nelle loro divise colme di sponsor e spesso tristemente privi di personalità. Divorando le biografie di Jugobasket, l'impressione è di incontrare uomini a tutto tondo, con una precisa visione della vita e del mondo. La loro sensibilità e intelligenza ha permesso loro di eccellere anche nei molteplici percorsi intrapresi dopo aver appeso la canotta al chiodo. In queste pagine troviamo allenatori di successo, dirigenti sportivi, politici e persino intellettuali di rango. Valga per tutti il caso di “Duci” Simonovic, bandiera della Stella Rossa Belgrado negli anni '60 e '70, prima cestista e poi scrittore e filosofo, autore di numerose opere in cui non risparmia critiche feroci al sistema dello sport di vertice, sia nei regimi socialisti sia nei sistemi capitalisti. La sua tesi è che i grandi atleti siano pericolosamente funzionali alla retorica del Potere di turno, che li spreme senza alcuna attenzione alla salute, inscenando con i loro successi una strategia di sportwashing che svia l'attenzione dai temi davvero importanti.

Il libro di Toso è però anche, finalmente, la chanson de geste di un'epoca probabilmente irripetibile per la pallacanestro jugoslava, sia nelle competizioni per squadre nazionali sia in quelle per squadre di club. Basti pensare che, tra il 1985 e il 1992, Cibona Zagabria, Jugoplastika Spalato e Partizan Belgrado conquistarono sei Euroleghe su otto. Questa epopea ci viene narrata dai suoi protagonisti, che rovistano tra la storia ufficiale e i loro ricordi personali, svelando vicende poco note e qualche retroscena curioso. Aco Petrovic riesuma, ad esempio, l'incresciosa vicenda del furto dello scudetto 1982-83, vinto dal potente Bosna Sarajevo a spese del piccolo Šibenka, che arrivò ai vertici di quel campionato grazie alla maestrìa del fratello di Aco, l'eccelso Drazen Petrovic. Dopo un fallo dubbio fischiato a fil di sirena, l'autore del canestro decisivo nella serie finale fu proprio il giovane Drazen. La dirigenza politica del basket jugoslavo decretò però, a posteriori, di annullare e far rigiocare la partita. Uno scandaloso e irrituale remake che la squadra di Sebenico decise per protesta di disertare, lasciando campo libero ai bosniaci. La ferita è ancora aperta, così come quelle lasciate da tante piccole e grandi antipatie e incomprensioni. Il campo unisce e divide, qualche volta per tutta la vita. Andate per esempio a leggere che cosa pensa ancora oggi Dino Rada, monumentale pivot croato dalle mani di fata, di Valerio Bianchini, suo coach tra il 1990 e il 1993 ai tempi della milionaria Messaggero Roma dei Ferruzzi. Che cosa faceva davvero “il Vate” nella Capitale? La risposta di Rada è in due paroline: la prima è “un”, la seconda è di cinque lettere e finisce con una “o”...