William Friedkin Killer Joe
2011 » RECENSIONE | Commedia | Grottesco
Con Matthew McConaughey, Emile Hirsch, Thomas Haden Church, Gina Gershon, Juno Temple
10/10/2012 di Paolo Ronchetti
Una famiglia, devastata dalla povertà e dall’ignoranza, cerca una scorciatoia alla propria miseria e finisce in un gioco più grande di se. Una ragazza, una “malatissima” Juno Temple (figlia del RnR Swindle Julien Temple), trova il peggior principe azzurro che le poteva capitare, ma le va bene lo stesso. Uccidere la madre con l’aiuto di un sicario (un incredibile e inaspettato Matthew McConaughey) per intascarne la copertura assicurativa sembra la soluzione che rinsaldi legami famigliari forse mai stati “legami” se non in chiave psicopatologica. Il killer è lo stesso uomo impunito che di giorno gira con il distintivo del rispettabile sceriffo a custodire la legge (del più forte?).
Esce finalmente, un anno dopo la sua presentazione in concorso a Venezia, Killer Joe di William Friedkin straordinario cineasta cui dobbiamo almeno, e non solo, un paio di grandi titoli quali “Il Braccio Violento Della Legge”, “L’Esorcista” e “Vivere E Morire A Los Angeles”. Ma, al di là del passato, Friedkin è un uomo che sa cosa siano una macchina da presa, una storia da raccontare e uno stile da seguire! Sarà banale ma questo film è, nella sua cattiveria e acidità di sguardo, un film con uno stile unico e che rimane incollato ai nostri occhi e alla nostra pelle. Uno stile che è sempre all’opposto della volgarità dei personaggi raccontati nella storia, sempre visti con occhio impietoso.
La storia, tratta dal lavoro del premio Pulitzer Tracy Letts, rimanda lontanamente a quelle raccontate dai fratelli Cohen in Fargo o da Sam Raimi in Soldi Sporchi e rende evidente come (quasi) chiunque sia disposto a tutto pur di arricchirsi. Ma c’è più di un sentore che questa storia di poveracci rimandi ad altro: alla nostra società e alle sue cambiali da restituire dolorosamente, tutte sino all’ultima, nel momento dell’evidenza della sconfitta, al naufragare del nostro sogno (più o meno) americano. Una allegoria impietosa della nostra società e di noi tutti, convinti di essere sempre più furbi del nostro destino e dei patti che firmiamo per sopravvivere.
Per qualche motivo la famiglia raccontata mi ricorda la marginalità malata (e sensuale) di una famiglia come quella del “malatissimo” Spider Baby (grottesca orrorifica commedia nera che Jack Hill produsse nel 1964), ma l’orrore, qui, non è più lente deformante e non è più, esclusivamente, in quella casa visibilmente malata. Il contagio è globale ma tranquilli: non moriremo di questo male, il killer da noi assoldato per la nostra salvezza, ci raggiungerà prima, non senza averci umiliato.
Nonostante una regia capace di giocare con toni grotteschi, anche nei momenti più drammatici della storia, non si può parlare di estetica pulp come molti incautamente hanno scritto. Lo stile, si ritorna ancora qui, è altro e alto. La puzza di una società alla fine dei suoi giorni ci passa sotto il naso con un’ironia nera e grottesca che non ne cancella l’irresistibile fetore di morte.
Straordinario!