Della straordinaria ed inesauribile inventiva di Tim Burton ormai non bisogna più stupirsi, della sua capacità di saltare da un genere all’altro, di cimentarsi con progetti spesso audaci, rifacimenti, film particolarissimi, ne ha fatto il pane della singolare carriera più che ventennale. Una caratteristica però torna, e lo identifica più di qualunque altra: il carattere gotico del sottofondo di ogni sua storia, e quando questo carattere è proprio parte integrante del film, allora l’opera diviene talmente personale ed identificativa che basta guardare un fotogramma per capire che si tratta di un suo film. Questa, in effetti, è una caratteristica più unica che rara tra i registi contemporanei e del passato. La storia gotica Tim Burton l’aveva affrontata in senso grottesco all’inizio della sua carriera (Beetlejuice), per ben due volte con l’animazione manuale (Nightmare Before Christmas e La Sposa Cadavere), in chiave classica (il Mistero di Sleepy Hollow), in chiave prettamente spettacolare (Batman) e sotto forma di favola cupa con l’insuperato e forse insuperabile “Edward mani di forbice”. Insomma, in tutte le salse, mancava forse quella più difficile da digerire, almeno per il grande pubblico: il musical, genere ostico per definizione, soprattutto nei paesi di lingua non anglosassone. E con “Sweeney Todd” Burton si cimenta in un musical a tutti gli effetti, adattando al cinema un mitico spettacolo teatrale musicato da Sondheim che prendeva a sua volta spunto da un fatto -forse- realmente accaduto un paio di secoli fa. Fatto che riguarda il barbiere Benjamin Barker che, dopo aver subito delle inenarrabili ingiustizie, fa ritorno dopo parecchi anni nella sua Londra; qua, attanagliato dai dubbi e dal desiderio di vendetta, con l’aiuto della vedova pasticcera Nellie Lovett riapre il negozio e, non riconosciuto, inizia ad esercitare. Ben presto i due diciamo che decidono di unire le due attività e di creare i pasticci di carne più gustosi della città utilizzando…la carne umana! E così iniziano gli omicidi a colpi di rasoio affilato. E’ proprio una storia alla Burton, questa, e viene confezionata proprio bene, dalle splendide scenografie (meritatissimo oscar a Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo), ai costumi e al trucco dei protagonisti, impeccabili, partendo dal Johnny Deep più simile ad Edward mani di forbice, anche se là era buono e adorabile, mentre qua un sanguinario assassino. Per chi non mastica il musical bisogna dire che comunque si può apprezzare lo stesso il film, sia per come è confezionato, sia per la recitazione, a partire dal solito bravissimo Deep, alla nuova musa nonché compagna del regista Helena Bonham Carter, bravissima anche a cantare, a tutti i comprimari. Certo, non è tra i migliori film del visionario regista americano, non è un film indimenticabile, però si lascia vedere e a tratti gustare molto. E lodando Burton per essere uno dei registi americani più coraggiosi degli ultimi decenni, e aspettando ardentemente la sua prossima avventura (si parla di Alice in Wonderland…), concludiamo citando la cosa peggiore e migliore del film, esattamente all’inizio e alla fine della pellicola: la terribile sigla iniziale in computer graphic e la splendida scena finale, una pietà gotica, immersa in fiumi di sangue che piano piano colora la scena prevalentemente bianca e nera, creando un’associazione cromatica tanta cara ai White Stripes…