Perché mettersi a recensire uno dei film più difficili degli ultimi anni? Perché tentare di spiegare agli altri quello che si è percepito durante la visione dell’ultima fatica di Malik? Semplice: una recensione cos’è se non un consiglio di visione/non visione e, nel suo piccolo, una lucida critica a quella che in ogni caso è un’opera dell’ingegno? E allora partiamo subito destrutturando il concetto stesso della recensione partendo dalla fine: il film è indubbiamente un capolavoro, ma lo sconsigliamo! Analoga scelta era stata fatta qualche anno fa recensendo l’ “Antichrist” di Von Trier, lo stesso regista che tanto scalpore ha suscitato nell’ultimo festival di Cannes che ha visto trionfare invece Malik. Torniamo al consiglio di non vedere il film (svelato solo alla fine, in ogni caso): dunque, “The Tree of Life” è un’opera talmente ispirata che va goduta con i sensi, ma purtroppo questa pratica non è più in uso nel mondo odierno, soprattutto nell’approccio ad un film. Troppe volte si privilegia la storia piuttosto che le sensazioni, non che sia sbagliato l’uno o l’altro approccio: il fatto è che è molto più facile farsi trascinare dalla storia, dai personaggi, piuttosto che entrare in una dimensione diversa (più profonda), quella emozionale. Se la stragrande maggioranza dei film usano –riuscendoci più o meno bene- il primo registro, pochissime sono invece le opere che si abbandonano completamente alla seconda sfera. Riteniamo dunque che sia inutile parlare della trama, come è inutile tentare di interpretare le spiegazioni di critici e non sul significato dell’ultima fatica di Malik, è molto meglio tentare di capirlo da soli, per magari scoprire poi che questo non è affatto importante. Se si riesce a fare questo, allora si capirà meglio che sorte ha avuto il film negli ultimi mesi: trionfo a Cannes tra i giurati, critica astutamente non sbilanciata, spingendo a tratti l’opera, omettendone il giudizio in altri momenti. Un buon battage pubblicitario e una veloce resa da parte di pubblico e critica stessa, con la paura di dire quello che non si aveva il coraggio di dire: “di questo film non si capisce niente”, oppure “è una boiata”, e giù, così via e le sale si sono poi svuotate in fretta. Perché non c’era il coraggio di dirlo prima? Perché Malik è un personaggio intoccabile, in parte come lo furono Kerouac e Salinger per la letteratura americana. Ma adesso a pochi mesi di distanza non ci si fa più remore: e allora dite pure che il film è noioso e senza senso, così quelli come noi possono affermare che “The Tree of Life” è uno dei “viaggi” più sensazionali mai fatti all’interno di una sala di proiezione.
Ma c’è una parziale scappatoia accessibile a tutti: per fortuna tra l’approccio classico e quello emozionale c’è un terzo livello trasversale ai due “mondi”, che è quello delle immagini. Che uno riesca o non riesca ad entrare in sintonia col film, è impossibile negare che ogni singolo fotogramma di “The Tree of Life” è un’esperienza, forse anche più grossa della storia stessa del cinema. Immagini evocative, definitive, sognanti, poetiche, dure, crude e delicate che da sole probabilmente valgono più di qualunque film uscito negli ultimi anni. Questo è il punto di contatto che dovrebbe fare uscire il film dalla “nicchia per pochi” per dedicarsi alle masse.
E qua arriviamo allora alla spiegazione finale sul consiglio di non-visione: per l’approccio emozionale bisogna essere predisposti caratterialmente, ma non basta, bisogna anche trovarsi nel momento adatto, l’umore deve essere quello giusto, la testa deve funzionare a dovere, non bisogna avere sonno…chiaramente troppe variabili per riuscire a vedere in “The Tree of Life” il film “della vita”! Abbandonando il
pluralis maiestatis posso dire che a me è andata bene, ma non mi sento di consigliare agli altri di tentare l’impresa, in un momento storico dove anche i 7 euro e passa sono tanti se buttati via. So di essere stato fortunato, fortunatissimo, ma in quanti saremo ad esserlo?