Ron Howard

Documentario

Ron Howard Eight days a week


2016 » RECENSIONE | Documentario | Storico | Musicale
Con John Lennon, Paul McCartney, George Harrison, Ringo Starr

25/09/2016 di Laura Bianchi
Ci vorrebbero otto giorni alla settimana, per regalare al mondo, nel breve volgere di un decennio, un numero tanto impressionante di canzoni indimenticabili, come hanno fatto i Beatles. E ce ne vorrebbero altrettanti, per conoscere e capire la genesi e lo sviluppo di un fenomeno non solo musicale, ma quasi antropologico. Ma Ron Howard, che ha saputo sganciarsi dallo stereotipo ingombrante di bravo ragazzo degli Happy Days per intraprendere una coerente carriera di regista, spesso legato alla storia o all'impegno (A Beautiful Mind, Apollo 13, ma soprattutto EdTV , folgorante riflessione su media, privacy e celebrità), ha provato a condensare in due ore (con in più trenta minuti di performance live, a conclusione del film, con il celeberrimo concerto allo Shea Stadium) non l'intera storia del gruppo di Liverpool, ma gli anni della sua ascesa, dagli esordi all'addio alle esibizioni dal vivo, nel 1966.

Il film non è solo un documentario, e tantomeno un montaggio, peraltro riuscito, di spezzoni notissimi o rarissimi, intervallati da interviste ai due Beatles superstiti e a personaggi dello show business, che a vario titolo ebbero a che fare col quartetto, da tre fans di eccezione (Whoopi Goldberg, Sigourney Weaver, Elvis Costello), al giornalista Larry Kane, che li conobbe durante il loro tour (de force) negli USA, fino al musicologo Howard Goodall, che paragona l'equilibrio fra prolificità e qualità delle composizioni dei Beatles a quello raggiunto da Mozart prima di loro.

The Beatles: Eight Days a Week – The Touring Years è un atto d'amore nei confronti dei Fab Four, un'indagine, minuziosa senza essere didascalica, accurata senza essere pedante, su come un'amicizia nasca, cresca, si spenga, e su come un gruppo, che fa musica per divertirsi insieme, diventi oggetto di un'isteria collettiva, sorprendentemente alimentatasi in un'epoca digiuna di social network e del contagio mediatico che questi portano implicitamente con sé.

I concerti, in cui la musica (eccellentemente suonata) prodotta dai Beatles viene sovrastata da un tappeto di urla adolescenziali, sono l'espressione ecaltante di uno dei primi prodotti massivi del mercato discografico, che stritola in primis chi cerca di esprimere le proprie emozioni attraverso le canzoni; è il caso di Help!, un pezzo autobiografico, in cui Lennon mette a nudo delusioni e frustrazioni del vedere la vita, propria e quella dei compagni, manipolata da altri. Howard conosce bene questo sentimento, e indugia, con un sapiente uso del sonoro, sulle urla dei (e delle) fans, scientemente provocando nello spettatore lo stesso fastidio che i quattro dovettero provare allora, motivando, sostenendo, infine sposando la loro decisione di abbandonare the touring years, per una nuova fase creativa, tutta centrata sulla ricerca e vissuta in studio, gli Abbey Road, autentica oasi di disciplina, dialogo musicale e culto dell'armonia.

Le interviste illuminano aspetti forse meno considerati dei quattro, come il loro impegno sociale (evidente nel caso del Gator Bowl di Jacksonville, città che ancora prevedeva la segregazione dei neri rispetto ai bianchi, e che vide per la prima volta tutti partecipare vicini al concerto, grazie alla ferma posizione della band), il retroterra proletario della Liverpool degli anni Sessanta, oppure la nascita delle canzoni firmate Lennon - McCartney (frutto di un dialogo quasi empatico e telepatico fra i due amici, accomunati dallo stesso percorso esistenziale e dalle stesse condizioni familiari). Ma è soprattutto l'aspetto visivo a colpire: lo spettatore non può fare a meno di notare la mimica e la prossemica dei quattro ragazzini, che agli inizi della loro avventura possiedono sguardi freschi e sfrontati, incredibilmente simili fra loro, un mostro a quattro teste, ma che, nel volgere degli anni e nell'infittirsi delle pressioni, diventano tesi, disuniti, incapaci di mantenere vivo il fuoco dell'antica amicizia.

Con un'eccezione: il Rooftop Concert del 30 gennaio 1969, sul tetto del quartiere generale della Apple, l'ultima apparizione live della band. I ragazzini sono cresciuti, il sogno è finito, ma, su un tetto di Londra, la magia si ripete, e, per lo spazio di qualche minuto, gli sguardi si incrociano, i sorrisi fioriscono; l'utopia di una storia di musica e amicizia infinite diventa, per un momento, possibile, e lo spettatore si ferma, stupefatto, ad assaporare un'altra storia intuita, forse desiderata, ma mai realizzata. La poesia di quei fotogrammi ci accompagna, dolcemente, verso una realtà ben diversa, tragica e amara. Ma è stato bello vivere in un'altra dimensione, per lo spazio di una canzone.


Commenti

Claudio Mariani


Non straordinario. Sempre bello vedere immagini dei Fab Four, in particolare al cinema. Però un regista come Ron Howard doveva dare e osare di più. Più interessante invece la versione abbinata con il concerto rimasterizzato allo Shea Stadium, che alcuni cinema hanno proiettato in coda al film stesso.

Ron Howard Altri articoli

Ron Howard THE MISSING

2003 Drammatico
recensione di Calogero Messina