Philip Barantini

Drammatico

Philip Barantini Adolescence (mini-serie tv)


2025 » RECENSIONE | Drammatico | Poliziesco
Con Stephen Graham, Owen Cooper, Ashley Walters, Faye Marsay, Christine Tremarco, Erin Doherty, ecc.



25/03/2025 di Ambrosia J. S. Imbornone
Perché in tanti parlano della mini-serie inglese Adolescence, distribuita da Netflix? Sicuramente questa nuova serie, in quattro puntate, diretta da Philip Barantini, spiazza perché non rientra nei cliché del giallo e poliziesco. Ideata e sceneggiata da Jack Thorne e Stephen Graham, entrambi tra i produttori esecutivi (tra cui c’è anche Brad Pitt), ma con Graham anche tra i protagonisti assoluti, Adolescence parte da un delitto, quello della adolescente Katie Leonard (Emilia Holliday), ma non stupisce con indagini complicate, colpi di scena, misteri, la suspence vera e propria del thriller. È soprattutto una serie tv drammatica e realistica, con una scelta stilistica particolare, quella di un unico piano-sequenza per ognuna delle puntate, che quindi esplorano di volta in volta uno o pochi scenari, portando lì lo spettatore. È il caso ad esempio del primo luogo chiave in cui ci troviamo catapultati anche noi, la casa dei Miller in cui fa irruzione la polizia di buon mattino per procedere all’arresto del tredicenne Jamie (Owen Cooper in un sorprendente esordio), nella sua cameretta con i pianeti sulla carta da parati e i giochi, oppure della scuola della vittima e del presunto assassino.

Ed ecco che in quei luoghi si evidenzia che il focus, più che sull’omicidio che turba la città di Doncaster, è centrato sull’adolescenza del titolo, che spesso i genitori non conoscono e non capiscono a fondo. Per questo probabilmente questa serie sta risultando disturbante per tanti adulti: non ci sono situazioni sociali di grande disagio, non ci sono mostri, ma c’è la cruda e sconcertante realtà di un’adolescenza in cui non si trova empatia e si accumula rabbia (si pensi anche alla reazione di Jade, la migliore amica di Kate, interpretata da Fatima Bojang). Insomma, ci vuole poco a immedesimarsi, per esempio, nel pur in gamba ispettore capo Luke Bascombe (Ashley Walters), che fraintende completamente i commenti su Instagram scritti da Katie sotto le foto di Jamie, finché suo figlio Adam (Amari Bacchus), bullizzato all’insaputa del genitore, gli spiega che emoticon come la red pill di Matrix sulla “verità” siano collegate all’accusa e al relativo dileggio di essere degli incel, condannati a essere rifiutati da quell’80% di ragazze che preferirebbero un 20% di ragazzi. E in qualche modo emerge che Jamie quella cultura misogina poi l’ha conosciuta, mentre era chiuso nella sua cameretta, dove i genitori lo pensavano al sicuro. E invece ovviamente non lo era e i genitori non sanno neanche cosa accada veramente a scuola, dove Bascombe e il sergente capo Misha Frank (Faye Marsay) ci mostrano classi in cui al massimo si mettono gli alunni davanti a un film, in cui tanti ragazzi si sentono emarginati e tanti altri sono anestetizzati dal cinismo di TikTok.

A volte potrebbe capitare di associare la violenza al machismo, all’aggressività dell’uomo che non deve chiedere mai, ma anche la cronaca nera italiana ci apre sempre più sugli occhi su come la violenza sia la risposta sbagliata alle proprie fragilità, la vendetta atroce cercata da ragazzi e uomini deboli che si sentono messi da parte, o ignorati, la “punizione” che assurdamente qualcuno si sente in diritto di infliggere per l’umiliazione subita. I bullizzati possono diventare bulli che pensano di poter ferire a loro volta con le parole, o di poter chiedere come giusto risarcimento la vita altrui. Jamie sembra un ragazzino come tanti ed appare gracile, timido, imbranato: il padre (Stephen Graham) si è vergognato di lui quando l’ha “costretto” a giocare a calcio e ha collezionato solo figuracce, e, per quanto abbia cercato di essere un genitore migliore del suo che lo picchiava, gli ha lasciato in eredità e come esempio scatti d’ira e gesti impulsivi. E allora il ragazzino, che amava piuttosto disegnare, si trasforma in una furia e non manca chi, immerso nella manosfera o manosphere, segue il caso di cronaca e parteggia per lui, mettendo in atto un victim-blaming a oltranza. E non si stenta a crederlo, pensando ai gruppi sui social pro-Turetta con insulti agghiaccianti a Giulia Cecchettin.

Insomma, nella mini-serie, ispirata non a un solo caso, ma a inchieste giornalistiche e in generale all’aumento di crimini commessi in UK da adolescenti con armi bianche, non vi sono ambiguità: c’è una vittima, c’è un colpevole, ma senza retorica e con interpretazioni attoriali del tutto credibili (un plauso spetta anche alle attrici Christine Tremarco, la madre di Jamie, Erin Doherty, la psicologa Briony Ariston, e Amélie Pease, la sorella maggiore di Jamie, Lisa Miller) ci si interroga anche sulle responsabilità di adulti che il mondo degli adolescenti e gli abissi di rabbia e frustrazione della rete li guardano da lontano e non sanno, non si rendono conto, non ascoltano i ragazzi, non capiscono cosa succeda loro. Intanto i giovani si trovano a fronteggiare da soli le loro inquietudini, nel silenzio o nella confidenza di pochi amici, finendo per mettere radici in un humus culturale estremamente pericoloso, in cui si piagnucola per veri o presunti oltraggi e intanto si pianificano e giustificano atti di violenza. Nella serie non si vuole "crocifiggere" i genitori, di cui si mostra tutta la sofferenza, ma implicitamente, in un interrogatorio fuori scena, è come se Adolescence comunque ci chiedesse: gli adulti dov’erano e dove sono? E cosa potrebbero fare? E tocca probabilmente a tutti noi rispondere.