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Luca Guadagnino Queer
2024 » RECENSIONE | Drammatico | ANTEPRIMA - uscita nelle sale italiane: febbraio 2025
Con Daniel Craig, Drew Starkey
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16/12/2024 di Giovanna Mentasti
Non c’è cosa più umana della ricerca di una connessione tra individui, del mettersi a nudo di fronte a una persona chiedendo “per favore, conoscimi, mi sto mostrando a te per ciò che sono davvero, apprezzami, ammirami, amami”. Eppure il nostro bisogno disperato di colmare la solitudine e conoscere l’amore è tanto forte quanto il terrore dell'intimità che deriva dal mostrare all'altro queste parti profonde di noi. Non si può amare ciò che non si conosce, così come l’unico modo per conoscere, ed essere conosciuti, è mostrandosi vulnerabili.
In Queer, libro e film, William Lee (Daniel Craig) ed Eugene Allerton (Drew Starkey) orbitano l'uno attorno all'altro come pianeti destinati a scontrarsi, ben consapevoli degli effetti distruttivi del loro impatto. L’universo che fa da sfondo alla loro rivoluzione è una tanto vibrante quanto irreale Città del Messico negli anni ’50, completamente ricostruita in teatro di posa e fotografata dal talento di Sayombhu Mukdeeprom, vista attraverso lo sguardo vacuo del protagonista, un espatriato americano quarantenne, che affoga la propria solitudine in bicchieri senza fondo e in rapporti occasionali tra le sudicie lenzuola dei motel.
L’incontro con il giovane segna uno scarto rispetto all’oblio di cui si era circondato con tanta cura, una crepa nel muro della finta indifferenza che aveva costruito per proteggersi dalle sue stesse emozioni. E anche quando Lee prova ad allontanarsi, cercando nell’oppio e nell’eroina un mezzo per raggiungere l'euforia tanto agognata e temuta, in fondo ritorna sempre ad Allerton, e i due non possono fare a meno di annientarsi a vicenda, perché il desiderio di conoscere, e di amare, è troppo.
Nella sua trasposizione cinematografica, Queer, come riportato anche dalla title card che conclude il film, è “William Burrough’s Queer”; Luca Guadagnino si trasforma in un tramite attraverso cui lo spirito dell’autore può realizzare la propria visione, un corpo intermedio tra il romanzo e le immagini. Allo stesso modo, il regista tratta con rispettosa delicatezza una storia che nasce dalla vita stessa dello scrittore, offrendo una rappresentazione cruda e sofferta della sua dipendenza e delle sue esperienze. Lee, Burroghs e Guadagnino si fondono così in un’unica entità, azzerando il divario tra le diverse forme narrative e mischiando gli stilemi artistici del cinema e della letteratura.
I corpi e i loro pensieri sono al centro delle immagini, che espandono l’attrazione fisica dei due protagonisti oltre il visibile, in modo spettrale: una carezza sognata precede un lungo e intenso rapporto, e, mentre Lee immagina di sfiorare appena il busto di Allerton, le loro gambe sono intrecciate e i loro volti ansimanti. Ma il sesso non è che la manifestazione più carnale di un desiderio così dilaniante da non essere mai veramente soddisfatto, finchè non viene prima accettata la sua natura. Guadagnino spinge dunque il racconto di Burroughs oltre i suoi limiti, lasciandosi alle spalle il Messico, e seguendo i due uomini in un viaggio dai contorni mistici nella foresta amazzonica alla ricerca del leggendario yage, l’ayahuasca, una radice dalle proprietà allucinogene che dovrebbe consentire la telepatia. È lì che i corpi tremanti di Craig e Starkey penetrano l’uno nell’altro, fondendosi in una cosa sola e oltrepassando il punto di non ritorno, mentre la colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross cresce avvolgendo la loro danza, fino a trasmutarsi nelle parole che non si diranno mai.
In Call me by your name, Guadagnino chiedeva “if it’s better to speak or to die”, se essere fragili davanti all’altro oppure farsi uccidere dal timore. La domanda di Queer è invece “how can a man who feels and sees be other than sad?”. La risposta a entrambe, suggerisce il regista, è che è meglio aver amato e perso, piuttosto che non avere mai fatto nulla che valga la pena rimpiangere.