James Mangold

Storico

James Mangold A Complete Unknown


2024 » RECENSIONE | Storico | Drammatico
Con Timothée Chalamet, Edward Norton, Elle Fanning, Monica Barbaro, Boyd Holbrook



27/01/2025 di Autori vari
A Complete Unknown ha suscitato discussioni fin dall'annuncio della sua ideazione. Il film, basato sul libro di Elijah Wald "Dylan Goes Electric!", e la cui sceneggiatura è stata approvata dallo stesso Dylan, racconta cinque anni della vita e dell'arte del premio Nobel, una figura capitale non solo per la musica, ma anche per la società contemporanea. Le emozioni suscitate dalla sua visione non possono che essere figlie del rapporto che ciascuno ha avuto, e ha, con lui.
Noi di Mescalina abbiamo scelto di presentare una pluralità di punti di vista, qui raccolti in ordine alfabetico, per arricchire la riflessione su un'opera destinata a restare.

Franco Bergoglio
Ci siamo, è successo di nuovo, capita sempre quando c’è di mezzo Sua Bobbità. Ci si divide. Chi stronca, chi gioisce, chi mugugna, chi assegna sufficienze. È la maledizione (benedizione?) di tutta una carriera. A ogni svolta il pubblico si spacca, discute, lo abbandona, arriva altra gente; quando il numero si ingrossa però...lui non è più lì. I'm Not There
Dovremmo dunque concludere che il film è “divisivo”? (Sarebbe peggio solo “iconico”). Eppure se vogliamo parlare di immaginari americani...chi più di Dylan? Timothée Chalamet/Bob Dylan piace ai giovani che affollano le sale, i boomer sbavano per le incongruenze. È  un film su Dylan? Ma no: Mangold propina il consueto beverone sul successo americano: il solitario con la chitarra arriva in città, omaggia il suo idolo, si batte, arriva allo showdown (il passaggio dal folk al rock a Newport, solo contro tutti), una sorta di sfida da O.K. Corral, e finalmente ottiene ricchezza, fama, donne. Il film fa ascoltare - direi bene - la musica di Dylan fino al 1965. Mica poco. Se il tema era il sogno americano, quello che manca è proprio l’utopia: perché la generazione che Dylan ha elettrificato era quella dei diritti civili, della libertà, della pace, della droga, della rivoluzione. Dylan l’ha abiurata presto: basta leggere la sua autobiografia, ma non c’entra, quella generazione si è messa in moto con Dylan anche quando lui ha tirato il freno a mano. Nel film gli anni Sessanta sono ridotti a televisori in bianco e nero o macchine cromate. Però ci sono la musica e le parole: una buona esca per i novizi. 

Laura Bianchi
"La ragazzina bellina col suo naso garbato gli occhiali e con la vocina Ma chi erano mai questi Beatles?" E chi era (è, sarà) Bob Dylan? Sconosciuto anche a se stesso, proteiforme, sfuggente e beffardo, in cerca di solitudine e trionfo, di approvazione e nascondimento. Countercurrent, gli dicono nel film. Mangold è abile a rappresentare proprio l'aspetto che, in Dylan, affascina e complica il nostro rapporto con lui. Il suo situarsi sul crinale esatto della storia, e non solo della musica - ad altri film il compito di spiegarla, certo con precisione e fedeltà maggiori - e il suo darle una spallata, per contribuire a cambiarla, sono colti con rispetto e attenzione, e il lavoro fatto da Chalamet, sul personaggio, sulla maschera e sulla voce, è notevole. Attorno a lui, sono totalmente credibili il fascino di Baez, un po' musa, un po' rivale, lo spaesamento di Rotolo, l'appoggio incondizionato di Grossman, lo sguardo paterno di Seeger (un superbo Norton), l'intransigenza ingenua e ottusa di Lomax, l'incoscienza necessaria di Neuwirth o Kooper, l'esuberanza di Cash, il silenzio parlante di Guthrie; e ammalia l'immersione nel Village, dipinto con un'esattezza vibrante, mai sterilmente filologica. Ragazzina bellina, vai al cinema, a vedere chi era mai questo Dylan. Questo film tenta di spiegartelo "con tutte le cose e non solo a parole"; capirai che senza di lui il mondo - non solo della musica - sarebbe stato più povero. Che lui davvero "contiene moltitudini". Ti stupirai per l'elenco monumentale delle canzoni sui titoli di coda. E, forse (lo spero), proverai gratitudine per un protagonista assoluto, che non riusciremo mai a comprendere, ma di cui abbiamo ancora bisogno.

Roberto Codini
Parafrasando il titolo di un disco di Luca Carboni dedicato a Dustin Hoffman, bisogna ammettere che Chalamet non sbaglia un film... Contrariamente a quanto pensavo, si è rivelato un attore straordinario, capace di interpretare ben due film della saga di Dune e di farli apprezzare anche ai più scettici come me. Mai come ora è bello avere torto. Chalamet ci ha regalato un Bob Dylan difficile da dimenticare, in un film raccontato anche attraverso le canzoni, proposte per intero e cantate dallo stesso attore, che si è preparato maniacalmente, per anni, per cogliere una scintilla dello sguardo, della voce e del sorriso indefinibile del genio. "Like a rolling stone...a complete unknown...no direction home": se Dylan abbia scritto la canzone per Edie Sedgwick, o per se stesso, non si sa. Quel che è certo è che con questa performance Chalamet non scivola via rotolando come uno sconosciuto o un vagabondo, ma si consacra come un attore da nomination agli Oscar. Se lo merita davvero.

Pietro Cozzi
Ero colmo di dubbi e pregiudizi, come spesso mi capita. E invece devo ammettere che il "mezzo franzoso" Chalamet si è preparato a dovere, ritraendo con maestria il carattere del personaggio, ingombrante e leggero al contempo, ironico, fine dissimulatore, fiero demolitore di ogni luogo comune artistico e ideologico e soprattutto con una montagna di fiducia nel suo talento. Un'interpretazione calibrata nella giusta misura, lavorando soprattutto per sottrazione. Il tutto dentro un film che accortamente seleziona solo una fase della vita di Dylan e decide di puntare soprattutto sulla musica: tre quarti abbondanti del tempo sono occupati da musica e parole, e dal costante rovello su come migliorarli e renderli consoni ai tempi. Si sarebbe potuto puntare sulle contorsioni biografiche, sui retroscena, sui pettegolezzi, persino su un eccesso di ricostruzione e santificazione dell'ambiente ("ahhhh che tempi, quei tempi!"). Nulla o poco di tutto questo. Per più di due ore guardiamo in filigrana parole e suoni, fino all'esplosione finale. E poco importa di eventuali forzature e imprecisioni. Ad altri il compito di scovarle, ma non è (quasi) mai davvero il punto... Pure il fatto che siano tutti così carinissimi è secondario, se serve a sottolineare la bellezza della scintilla creativa. Certo: il linguaggio e lo stile di Haynes stanno su un altro pianeta, ma parliamo di due operazioni completamente diverse.
Nota di costume. C'è voluto Dylan per portarmi, dopo qualche decennio abbondante, nella sala più grande del cinema multisala del mio paese, quella di solito riservata ai film più bombastici. È stata la prima volta, e ciò è molto bello...

Valeria Di Tano
Fino a una manciata di anni fa non sapevo niente. Mi fa strano rendermene conto ma è il modo più onesto per dirlo: leggevo romanzi, seguivo il telegiornale, parlavo di grandi temi con la pretesa assurda di sapere qual era la parte giusta dalla quale sporgermi per guardare giù, nel marasma delle opinioni sfumate. Poi improvvisamente sono successe una serie di cose, in una sequenza per certi versi rapida, come il pianoforte che nei cartoni animati si sfracella cadendo dal quarto piano e sfondando il marciapiede, e per altri lento e soave, come l'acqua che consuma e lucida le pietre in riva al mare. Ho aggiunto pensieri, soppalcato lo spazio con tramezze, ripiani, scale, nicchie, mensole. E ho arredato ogni angolo con oggetti bellissimi. È stato come imparare a studiare la vita invece dei libri, come imparare un trucco di meraviglia: tutto quello che so adesso è intrecciato e connesso e vivo. So mettere in relazione idee, personaggi, storie, atmosfere. So riconoscere la complessità di quel che mi circonda e, invece di averne paura, mi ci immergo, lasciando che tutto scorra e faccia corrente e rivoluzioni le cose che penso. Il simbolo più efficace di tutto questo è Bob Dylan: ho passato moltissimi anni senza avere nemmeno il coraggio di nominarlo, senza sapere nulla di folk e di rock, di Joan Baez, di chitarra elettrica e di Woody Guthrie. Adesso è tutto diverso. So che ogni giorno imparo milioni di cose, che cerco affamata nuovi argomenti e nuove profondità; so perdermi in conversazioni infinite e stimolanti; soprattutto, adesso sono appassionata e questo è ciò di cui sono più orgogliosa. Come sempre, "vivo a parole": è la mia natura. Ma ho tanta musica che mi gira intorno.
The times they are a-changin'.[Il film è bellissimo].

Arianna Marsico
Like a rolling stone. Come una pietra scalciata, rotolante tra anni difficili e ancora assetati di maccartismo (come mostra il processo a Pete Seeger, interpretato da un magnifico Edward Norton) e la ricerca di una propria identità. Restando però a complete unknown agli altri, come gli rinfaccerà Elle Fanning nei panni di Sylvie Russo (ispirata a Suze Rotolo), e forse persino a se stesso.
A complete unknown, diretto da James Mangold, racconta Bob Dylan negli anni tra l’arrivo a New York, ispirato da Woody Guthrie, e quello che potremmo definire “un soffio al cuore di natura elettrica”, a Newport nel 1965. Un gesto, quello di imbracciare la chitarra elettrica nel festival tempio del folk, che con le lenti di oggi potremmo definire inconsapevolmente punk. E in fondo lo è lo sguardo di Timothée Chalamet, che sembra sempre sfuggire qualcuno o qualcosa, pur essendone attratto. Così è con Sylvie, così con Joan Baez (una convincente Monica Barbaro). La cosa bella del film (musica a parte, ma sarebbe pleonastico scriverlo) è la restituzione di anni intensi, carichi di storia e intrisi di impegno, lotte, in cui la musica veniva vissuta così sul serio da prendere una chitarra elettrica come un tradimento.