“Baaria”, l’ultima fatica di Giuseppe Tornatore, è come un maestoso ciclo di affreschi. Il paragone spiega egregiamente pregi e difetti dell’opera. Degli affreschi “Baaria” ha la vividezza delle immagini, la didascalità nel raccontare la storia non solo di una famiglia ma anche della Sicilia che cerca di opporsi alla mafia, del PCI che in quella regione tentò di stare vicino alle esigenze della gente semplice. Ma il film, dovendo narrare un arco temporale che va dal Ventennio fascista agli anni ’70, finisce con l’essere prolisso (soprattutto nel finale) e non di rado glissa sulla connessione tra i fatti, proprio come i cicli pittorici, che vanno avanti per grandi scene e non per minuti dettagli. Dal momento che “Baaria” non raggiunge il livello di “Nuovo cinema Paradiso”, “La leggenda del pianista dell’oceano” e “La sconosciuta”, gridare al capolavoro come si è fatto in questi giorni è decisamente eccessivo. Ciò non toglie che nel riproporre la storia dei propri genitori Peppino (Francesco Scianna) sindacalista e militante comunista, e Mannina (Margareth Madè), così poveri da non poter nemmeno permettersi la “fuitina”, Tornatore riesca ad emozionare lo spettatore. Anche se si tratta di un’emozione che poi fa subito ricordare il piccolo Salvatore di “Nuovo cinema Paradiso” e riporta a Giancaldo piuttosto che a Bagheria è confortante, ora che i partiti sono ridotti a mangiatoie per i soliti noti e i cortili in cui giocare rischiano l’estinzione, avere la prova che ci fosse chi rischiava la vita per difendere dei semplici allevatori e che i bambini potessero divertirsi anche soltanto con una trottola in cui intrappolare una mosca perché “voli più leggera”.