Baz Luhrmann Elvis
2022 » RECENSIONE | Drammatico | Storico
Con Austin Butler, Tom Hanks, Olivia DeJonge, Helen Thomson, Richard Roxburgh
27/06/2022 di Laura Bianchi
L’australiano Baz Luhrmann, classe 1962, appartiene a quella generazione, e della cultura, anche musicale, che a Elvis è seguita, conosce ogni sfumatura. Postmodernismo, si chiama: citazionismo con originalità, mash up a più livelli di lettura, sfoggio rutilante di effetti speciali per anestetizzare lo spettatore, cercando di nascondergli gli aspetti più duri dell’esistenza. È stato così per Moulin Rouge, o per il remake de Il grande Gatsby; è così anche per questo biopic, che indaga la vita di Elvis attraverso una lente soggettiva, petulante, solo apparentemente onnisciente: quella del sedicente Colonnello Parker, ambiguo e avido, manager - imbonitore, dal passato oscuro e dallo sguardo indecifrabile, qui magistralmente interpretato da un imbolsito, impenetrabile Tom Hanks.
Come già per l’Amadeus di Forman, dietro, o meglio, al fianco di un genio c’è sempre un Salieri, spina nel fianco e stimolo a superarsi; ma, davanti a Salieri, sfavilla sempre il genio, con il proprio spasmodico bisogno di arte, intrecciato alla necessità di avere davanti a sé un pubblico con cui condividerla. E, in questo caso, un quasi esordiente Austin Butler incarna alla perfezione il profilo di un genio del rock and roll, per cui si sono sprecati tutti gli aggettivi a disposizione, presentato non solo nelle sue trasgressive, autenticamente politiche performances, ma anche nella genesi di una personalità tormentata, segnata dal peccato originale dell’infanzia da bianco in un quartiere di afroamericani, e da un rapporto mai risolto con i genitori.
Luhrmann è abile, nell’imprimere al film due velocità: la prima parte è quasi tutta dedicata all’ascesa fulminante del King, colta con un montaggio serrato, lisergico, urlato, come l’isteria collettiva, che trascinava con sé il pubblico soprattutto femminile, impreparato a una sensualità tanto esibita, e che turbava quello maschile, che scopriva con Elvis lo stretto legame tra costume sessuale e trasformazioni della società. È la parte più postmodernista, in cui la musica di quegli anni e quella attuale si mescolano, provocando un effetto straniante, ma coinvolgente. La seconda parte è invece più riflessiva, il ritmo più lento, la macchina da presa indugia su primi piani e sguardi, alle luci del palco e alle urla si sostituiscono le ombre delle notti solitarie e i silenzi di una vita che si sta spezzando, mentre attorno il mondo cambia vertiginosamente, le mode si susseguono, la violenza incombe ovunque e si compie la rivoluzione iniziata da quel ragazzo di Tupelo, che ancheggiava mescolando la musica dei neri e quella dei bianchi.
Sono due facce della stessa medaglia, unite dalla voce di un io narrante inattendibile, ormai anziano, che sopravvisse vent’anni al mito che contribuì a creare e, forse, a distruggere, e che dà del “voi” agli spettatori, ribadendo che a uccidere Elvis fu invece l’amore per “noi”, per quello che dava e riceveva sul palcoscenico.
Luhrmann, nelle scene finali, in cui Butler cede il posto al vero Elvis, nella sua ultima, struggente, apparizione in pubblico (Unchained Melody, piano e voce) non intende calcare il facile patetismo, ma ribadire che la grandezza di un artista come Presley non si può includere in una sola immagine, in un’unica interpretazione, ma che trascende lo spazio e il tempo, per essere ricordata per sempre, per arrivare alle montagne dell’infinito, come il supereroe che il piccolo Elvis sognava di essere.
Non abbandonare la sala appena iniziano i titoli di coda permette di cogliere appieno l’idea di eternità terrena che anima il film: la già pletorica colonna sonora, infatti, si arricchisce di una serie di contributi, da Eminem a Swae Lee fino ai nostrani Måneskin, che ribadiscono la continuità di un’eredità essenziale per la storia del rock e non solo.
Insomma, Elvis has never left the building...