Andrew Dominik

Documentario

Andrew Dominik One more time with feeling


2016 » RECENSIONE | Documentario | Drammatico | Musicale
Con Nick Cave & The Bad Seeds

28/09/2016 di Laura Bianchi
Ci ha provato Nanni Moretti, ne La stanza del figlio. Ci ha provato Felix Van Groeningen, in Alabama Monroe, anzi The broken circle breakdown (titolo che descrive appieno la situazione). Tanti hanno provato a parlare dell'evento più disumano e innaturale che possa esistere, al punto che nella nostra lingua c'è l'orfano, il vedovo, ma non c'è un termine che descriva lo stato in cui si trovano i genitori che seppelliscono un figlio.

Ora ci prova Andrew Dominik, chiamato da Nick Cave per raccontare l'elaborazione del lutto, vissuto da lui e dalla sua famiglia, lo scorso anno, quando il figlio quindicenne Arthur, fratello gemello di Earl, morì cadendo da una scogliera a Brighton.

One More Time with Feeling è esattamente ciò che indica il titolo: parlare, una volta ancora, del sentimento della perdita, e farlo con le immagini, le parole, la musica dell'ultimo album del cantautore australiano, Skeleton tree, uscito pochi giorni fa.  Il bianco e nero, la tridimensionalità e la mobilità della cinepresa, il montaggio e le scelte dei chiaroscuri, il sonoro a volte precisissimo, altre confuso, il giustapporsi e il sovrapporsi delle voci, che si parlano fra loro, o parlano allo spettatore, oppure esprimono il pensiero dei protagonisti, come se si trattasse di un "a parte", fuori dalla rappresentazione: tutto contribuisce a dare al film una profondità che è innanzitutto di pensiero, una complessità che è innanzitutto di significato.

Lo sguardo di Cave, a volte enigmatico, altre visibilmente commosso, altre ancora ostentatamente attoriale, trapassa lo spettatore, rivelando lo spaesamento dell'artista e dell'uomo di fronte a un trauma (come più volte ripete), insuperabile nel suo misterioso svolgersi, impossibile da risolvere, se non aggrappandosi al fare artistico: allo strumento di una voce scarnificata, di un pianoforte percosso a tocchi minimali, per il musicista; e, per la moglie di Cave, alla confezione di abiti raffinati, per non soccombere alla depressione.

Eppure, non è un film disperato, o deprimente: lo attraversano una sorta di lucido coraggio e una forza interiore, che spingono l'occhio della cinepresa a indagare il luogo della morte di Arthur, in una lenta manovra di avvicinamento, fino alla famigerata scogliera, ripresa dal basso, nella quale la fatalità incombe con tutto il pathos di una tragedia greca. Anche se, dice Cave nel film, il caso non esiste. Come, secondo lui, non esiste una razionale narrazione della vita. La vita si svolge secondo percorsi a noi oscuri, il cui senso complessivo ci sfugge, e che noi dobbiamo percorrere, come camminando attraverso Deep water . Ed a chiudere la pellicola è proprio la canzone composta da Cave per e con Marianne Faithfull, cantata dalle voci di due ragazzini: Arthur e Earl Cave. Uno sprofondato nell'acqua profonda, l'altro condannato a camminare per questa terra, chiedendosi un perché irraggiungibile, ma che ha deciso, coi suoi genitori, di essere felice, per vendetta, come lo stesso Cave dice. Non aggrappandosi al pietismo di una persistenza della memoria (Arthur non vive più, ribadisce il padre con ferma convinzione), ma convivendo col dolore, trasformandolo, rendendolo amore. Non esiste nulla di più autenticamente punk che rompere il cliché del genitore affranto e in cerca di consolazione, per diventare un uomo che solleva lo sguardo, incerto, confuso, ma schietto, verso un futuro incomprensibile.