Andrea Segre

Storico

Andrea Segre Berlinguer La grande ambizione


2024 » RECENSIONE | Storico | Drammatico
Con Elio Germano, Elena Radonicich, Roberto Citran, Paolo Calabresi



04/11/2024 di Laura Bianchi
"Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona...Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona".

Gaber avrebbe approvato l'impianto narrativo del bel film di Andrea Segre, che ha l'ambizione di raccontare gli anni cruciali del percorso politico di Enrico Berlinguer, dal viaggio a Sofia nel 1973, con relativo incidente - attentato, al 1978, con la morte di Aldo Moro e la cancellazione definitiva del cosiddetto compromesso storico, già naufragato pochi mesi prima. Perché Berlinguer  - La grande ambizione si avvicina al genere biografico e storico con un approccio etico e morale, ancora prima che politico, dal punto di vista sia della regia, sia della sceneggiatura, anche di Marco Pettenello

Innanzitutto, la fluidità con cui scorrono le immagini di repertorio, intrecciate con quelle ricostruite nel montaggio a opera di Jacopo Quadri, testimonia una cura minuziosa dei dettagli, ma anche l'intento di costruire una storia collettiva nella storia individuale, stringendole insieme. In quegli anni questo era possibile, sembra volerci dire il regista; e ne fa fede la ricostruzione storica, affidata a Miguel Gotor, esperto della politica di allora, nonché curatore delle lettere di Moro durante la prigionia, che circoscrive gli eventi, necessariamente sintetizzandoli, senza discostarsi dalla realtà, e senza scivolare nel rischio dell'agiografia acritica.

Le scene collettive rappresentano le grandi masse e dei volti del popolo italiano di quegli anni, che si muovono articolate, differenti per estrazione sociale, ma compatte, in ampi spazi aperti, dagli sfondi urbani e periferici, e che risuonano di speranze, di rivendicazioni, di attese. Queste sequenze si intersecano con quelle private, familiari, del Berlinguer marito e padre, tutte circoscritte in uno spazio chiuso, spesso serale o notturno, a eccezione di una scena di un picnic familiare, e delle scene nell'amata Sardegna, a contatto col mare e il vento, rari momenti di libertà. Ma c'è un altro genere di scene in interni: quelle in cui vengono decisi i destini del popolo, le stanze del potere, gli abitacoli delle auto, le riunioni e i congressi (memorabile quello a Mosca, dai toni dittatoriali), in cui le esigenze della collettività, la "grande ambizione" appunto, di cui scriveva Gramsci, si scontrano con gli interessi particolari, le piccole ambizioni di politici egoisti, che tarpano le ali al "senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita" (citando, ancora, Gaber di Qualcuno era comunista).

In questo equilibrio precario si gioca la dinamica del racconto di Segre, che lascia il protagonista Elio Germano libero di costruire il suo personale Berlinguer, in un gioco di sottrazione che ha del portentoso. Perché l'attore non rincorre l'utopia di fare il sosia del politico, ma lo porge allo spettatore con rapidi, intensi tocchi: un incresparsi di labbra, uno sguardo di sotto in su, una spalla più curva dell'altra, un accenno di inflessione sarda. E fa emergere tutta la tensione, etica prima ancora che politica, di un politico lungimirante e illuminato, sulle orme di Gramsci, più volte evocato anche visivamente, che crede fortemente nel valore della democrazia e che spesso resta solo, meglio, isolato anche dal suo stesso partito o da chi, a sinistra, sceglie di percorrere la strada della violenza, rifiutando ogni dialogo. Inoltre, alcuni dialoghi, coi compagni di partito, coi figli, coi politici degli schieramenti opposti, o alcuni discorsi pubblici, fedelmente riprodotti, risuonano ancor oggi in tutta la loro bruciante e dolente attualità: come dopo la reazione alla strage, di matrice fascista, di Piazza della Loggia a Brescia, in cui si fa appello alla Resistenza, per dimostrare la vitalità della democrazia italiana; o le riflessioni nel corso della campagna elettorale per il referendum abrogativo della legge sul divorzio, nel 1974.

La figura del politico si sovrappone a quella dell'uomo, perché il secondo informa il primo, e il regista ce lo suggerisce anche attraverso alcuni simboli: il latte che beve, ricordo di quando accudiva la madre malata, la disciplina con cui si applica in esercizi di ginnastica da camera, le scacchiere presenti nei momenti in cui occorre sottolineare le scelte strategiche, la scrivania alla quale compone alcuni discorsi, costruendoli in funzione dell'effetto retorico che vorrebbe suscitare, l'attitudine all'ascolto e allo sguardo verso gli interlocutori, segno di umiltà e intelligenza insieme. Infine, il suo feretro cosparso di rose rosse, pianto da centinaia di migliaia di persone di ogni origine, da Pertini, Antonioni, Vitti, Mastroianni, fino al contadino e all'operaia. Scena memorabile, per l'intarsio delle immagini sulla splendida colonna sonora, di Iosonouncane, che prima ha incluso anche il grande classico di Pierangelo Bertoli, Eppure soffia, forse omaggio al libro Eppure il vento soffia ancora. Gli ultimi giorni di Enrico Berlinguer, di Piero Ruzzante con Antonio Marini.

Il vento soffia ancora, nonostante la grande ambizione sembri zittita e debole, quando non addirittura sconfitta. Pensiamoci.