Giromini E La Maledizione Ostalghia
2016 - A Buzz Supreme
Ascolto Giromini nel nuovo cd che firma con La maledizione (al secolo Andrea Marcori - basso - e Flavio Andreani - batteria -) e ri-trovarlo ideologicamente intonso, coerente come un Lolli dell'Era post-ogni cosa (pensiero, lotta, umanità), mi riappacifica col cantautorato che è stato e chissà se sarà. Tanto per cominciare - e non dare adito a fraintendimenti - il disco di Giromini si intitola Ostalghia, cioè il sentimento di rimpianto sottile nutrito da qualcuno dei tedeschi dell'ex DDR verso il comunismo. Ma toglietevi dalla testa i pensieri cattivi: tra le tracce sparse per musica e parole del vetero-cantautore non c’è ombra di nostalgismo. Il punk filosovietico si è estinto con il camaleontico estinguersi dei CCCP e la scrittura di Giromini è talmente capace (evocativa) da stazionare lontano un miglio dalla didascalia combat-folk di MCR e Gang. Insomma, per farvela più breve, vi dico che Ostalghia si staglia come l’ennesimo disco ossimorico di stampo girominiano. Prendete il pezzo dedicato alla macelleria poliziesca del G8 di Genova (Fragole e sangue), soppesatene scrittura e clima e ditemi se non ho ragione (le canzoni di Giromini saranno anche no-future ma sono anche no-retoriche, vivaddio).
Un’essenziale coloritura acustica (fisa-basso-batteria) taglia idealmente a metà la scaletta del cd, sotto sguardo e ombra lunghe della Storia: da un lato l’Italia che non è andata e che non va (Gladio, Sottosopra, La mia generazione, Fragole e sangue di cui si è detto), dall’altro la Russia. Il totem ideologico cui ritornare giocoforza, il Moloch politico con cui tocca fare i conti ma senza apologia (Varka, Treno per Lenin, Esilio di Lev). Dodici brani austeri e mobilissimi al contempo. Dodici brani come stazioni lugubri del secolo trascorso. L’impronta autarchica di Davide Giromini in parole povere e in ultima analisi: il folk che sfocia nel punk-rock che sfocia nella canzone d’autore, secondo un taglio contenutistico-formale che gli auguro di preservare intatto nei secoli dei secoli. Sono quasi trent’anni che per libri e giornali provo a spiegare che non è un fatto di cantare politico: il discrimine secondo cui una canzone può dirsi canzone d’autore è dato dal contenuto. Attraverso un’impronta sui generis – un’impronta sbieca, storico-ontologica-nichilista-resistenziale - Giromini si concede ancora il lusso dell’impegno, che in questo disco passa dal racconto-filo rosso del conflitto di Stato (se proprio quello di classe ormai vi risultasse indigesto) transgenerazionale. Il disco, fra gli altri meriti, ha dunque quello del coraggio. E non mi sembra, già di suo, un merito da poco.